29.4.10

a s s c e f p g c s

Mi mancate voi. Il nostro tutto. Mi mancano anche i silenzi, quelli nostri e che non danno fastidio. Mi manca parlare delle stesse cose in ogni cosa, trovare noi in ogni situazione. Ripetersi e chiedersi perché, perché la fortuna non è mai troppa, perché a loro tutto e a noi niente. Ma noi abbiamo noi, e non possiamo definirci niente. Mi mancano le vostre sigarette, i vostri segreti, le nostre merende. Le file al caffè, gli sbuffi dell’alba, i messaggi della sera. Mi manca il bel tempo: era bello anche quando pioveva, i capelli umidi e le facce struccate. Sempre uguale, ogni mattina, la solita voglia, il solito brio di chi vive di routine. Ma non sarebbe stato lo stesso, la routine non avrebbe ruotato senza di voi. Oddio, quanto mi manca parlare a vuoto, senza essere ascoltata, fare la pesante senza essere insultata. Oddio, quanto mi mancate. Vi voglio bene.

24.4.10

Sicurezza.

L’insicurezza non è femmina, cioè, non lo è per forza. L’insicurezza è un po’ di tutti, ma sono abbastanza sicura sul fatto che a me provochi singolari effetti collaterali: più sono insicura - nelle rarità delle mie circostanze in bilico, dove se sbagli, sbagli per sempre - più le mie fantasie giocano ad evolversi, tanto da suscitare in me sempre più solide sicurezze. In sintesi, la mia insicurezza è direttamente proporzionale alla mia stessa sicurezza; lo so, pare strano, ma quello scarto tra immaginario e realtà in cui tutti gli storici sembrano credere, è come se non lo vedessi o vivessi*. Piuttosto, in quello scarto, salto, scacco o dir si voglia, io oggi preferisco viverci*, e forse è per questo che non lo vedo, perché l’occhio critico, che ci scruta dall’esterno e da più lati, viene troppo spesso a mancare: è cieco.
Non importa, io amo comunque trascorrere giornate intere in quello scacco - se vuoi anche un po’ matto - mi ci tuffo e mi ci ficco, tutta, me lo prendo e me lo allargo, tutto. Ah, come si sta bene. È una condizione non condizionata, da non poter essere definita stasi. Tengo lo sguardo aperto, fisso, ma fisso altrove. Immagino come sarebbe, cosa sarebbe se io dicessi, se io chiedessi, facessi. Immagino come risponderebbe, il gesto, il saluto. La frase. Non conto inceppamenti, titubanze, tutto scorre nel mio scacco quando il re è con la regina. La luce è quella della pioggia riflessa nella mia tazza di tè senza fondo né futuro; il bersaglio è la luna, se la mancherò avrò comunque girovagato tra le stelle. Non parlo di dimensione del sogno, no, parlo del mio immaginario fatto d’immagini. Ah, come si sta bene. E la mia lingua? La mia lingua sta al passo col pensiero, e viceversa, con spontaneità, naturalezza, verità. Nel mio immaginario è tutto più vero, nel mio scarto, salto, scacco o dir si voglia io immagino talmente bene da credermi nella realtà reale. Immagino talmente bene che ciò che ho immaginato sia proprio pronto per essere vissuto*. Con sicurezza.


*N.B.
L'uso ossessivo del verbo vivere nelle sue diverse forme: /vivere su di sè/viverci dentro/vivere qualcosa.

18.4.10

Quando la salute ti saluta, è come se i ciao avessero l'eco degli addii.

Ci sono cose che non si possono dire, per convenzione più per convinzione. Non si possono dire, punto e basta; le tieni per te e per alimentare l'insonnia della sera. Hai paura, tanta, perchè nel momento in cui il tuo privato potrebbe conoscere spiragli di pubblico, temi che la luce faccia poi presto ad arrivare a grandi fasci: con la luce si vede la polvere.
Quindi, questa volta, preferisci non farlo, non parlare o parlare tra limiti di protezione, in tabù di tutela. Questa volta devi aver pianto talmente tanto che i tuoi occhi non distinguono più se fuori sta piovendo. Hai anche pregato tanto, pregavi che i giorni potessero aspettare ancora, che fossero lenti, pazienti, più di quanto tu avessi imparato a fare. "Non oggi, ti prego". Rimandi un pensiero da tempo, lo scacci via, ma poi scivola in trachea. La gola dentro suda.
"Non ci penso, oggi, no". Giorni, aspettate ancora un po'.

Fare ordine non fa male, formicola.

Hai buttato via ciò che restava, ad occhi chiusi.
La bocca amara, le mani sporche, di chi commette un delitto senza penale. La carta straccia che geme nelle dita sfregiate; e tu che non la senti, però intanto quelle righe le conti. Eh sì che alle pagine, di orecchie, ne feci parecchie: dicevi che così ti avrebbero potuto ascoltare.
Fare ordine è come riscoprire un mondo che non c'è.
I cassetti contengono sogni che non sono più i tuoi, sono sogni in polvere, di un cumulo divenuto troppo grande per essere spazzato via. Ci sono scaffali che cambiarono il loro perchè, che smisero di esporre i prodotti della felicità, ma che tuttavia riescono ancora a ridere in un ghigno di rimpianto. Così ti ritrovi a sorridere da sola, ti ascolti per darti ragione, ti stiracchi l'anima per coccolarti senza dignità. Il tempo dolce se ne va, se n'è già andato. Fare ordine non fa male, formicola.


Io mi gratto forte con le unghie, le affilo per graffiare.