28.5.10

Pazza.

Pazza, questo sono. Pazza. Ma non rientro nella categoria delle impazzite per amore, di quelle ce ne sono fin troppe. Non assomiglio neppure a quei pazzi che di notte rovistano nei pattumi alla ricerca di tesori, e che di giorno se ne stanno in piazza, tali e quali a monumenti senza piccioni: di quelli però ce ne sono sempre meno o talmente di più da sembrare di meno, dipende. Io sono pazza sì, ma che pazza sono? Di certo non sono la pazza del paese, dato che non ricordo di essermi mai tagliata la punta delle scarpe per impedire ai calli di farmi male, né di avere spezzato il silenzio della Chiesa sul più bello di un’omelia pasquale. Non sono una pazza del paese, anche perché i pazzi del paese sono delle vere istituzioni, come i preti o i panettieri o i medici condotti, ed ecco, per adesso, non penso ancora di essere un’istituzione.
Non tutti però lo capiscono, che sono pazza. C’è chi mi vede seria, integerrima, granitica nei principi, sempre in ordine, dentro e fuori; chi crede che io non tentenni mai, che non possa deviare o crollare. E invece non piego le mutande dentro i cassetti, brucio il caffè e non so phonarmi i capelli con la spazzola. Anch’io se cado per terra rotolo, anch’io mi faccio programmi e non li rispetto. Per di più sogno - quelle rare ore non insonni - di avere piedi ricurvi, inadatti alle scarpe piatte: è un problema? Poi quando rido mostro tutti i denti, sono pazza?

Grazie a D.

25.5.10

Buon compleanno.

Guarda che non mi sono dimenticata, il tuo compleanno non può volare via come tutti gli altri giorni, quelli che - ora più di prima - sembrano disperdersi ad ogni mio risveglio. Chissà dove vanno, forse in cielo, come il fumo di sigarette mal assaporate. Ma il tuo compleanno no, il tuo compleanno va respirato per bene e per intero, inalato fino all’ultimo tiro. E lo senti il sapore? Lo senti? È un retrogusto che non possiede un nessun ché d’amaro, se non fosse per quel brulichio d’amarezza incagliato alla gola: l’amarezza di non esserci, oggi, lì, assieme.
Mi rimane il filtro tra le mani e un po’ di te nel piattino del posacenere: fumerei ancora volentieri, ma il tuo compleanno è uno solo, così speciale che non lo vendono in pacchetti. Allora non posso che annusarmi le dita, le annuserò anche prima d’addormentarmi; poi non berrò nulla fino al mattino, perché quel brulichio d’amarezza incagliato alla gola me lo voglio tenere, fa solletico, e magari ci scappa un sorriso. Proprio come uno dei tuoi, i più belli.

BUON COMPLEANNO.

23.5.10

Divisa in due me ne sto.

E' stata una di quelle giornate lunghissime, quelle che non hanno nè capo nè coda, ma sanno di frenesia pura, sanno di fresco, di buono; una di quelle giornate in cui il vento di novità ti arriva in faccia a spettinarti i capelli: di colpo il respiro ti viene a mancare, ma poi, in quel vento, ci affogheresti volentieri, subito.


R. è così.
È riprendersi in mano la vita.
E’ respirare odore di città.
Non aria pura, ma Vera.
“Respirala tutta e stacci in apnea”

R. è un fiume di luci di Natale.
È il freddo che scorre nelle maniche
Come granelli di zucchero il mattino.
R. è aperitivi in stile africano
dove però - che brutto dirlo - non si muore di fame
R. è una buonanotte di cassate siciliane
R. è un buongiorno uccellini, natura, parco, bambini
È chiacchierate lunghe senza senso
Un filo del discorso perso
Nel disordine di camere vissute.

R. è una bicicletta.
Rossa.
Vecchia.
E’ l’ombra che pedala accanto a te.
Compagna di piazze sfollate.
La strada la sa, se rallento lei procede.
Se mi giro, lei si gira, mi guarda le spalle.
Prosegue sicura.
R. è biblioteca.
Tossire tra i silenzi.
Ripetere in silenzio.
R. è piscina.
Pelle che si abitua a un cloro sconosciuto
E non sai più la casa tua qual’è
R. è mare.
È pelle.
Rossa.
Calda.
È ginocchia sbucciate
Scorciatoie improvvisate
R. è stringere mani - ciao, Cecilia -
A facce che saranno nuove una sola volta
ma che rischieranno di perdere il loro nome
in un impasto di dialetti e risate.
R. è l’altra metà
C’era un cavaliere che è vissuto dimezzato
E la storia aveva un lieto fine, mi pare
Perché non potrebbe valere anche per me?

Ho imparato a prendere e lasciare
A far passare
Mandare giù (e non solo il fumo delle sigarette)
A pensare lontano
A non pensare
Perchè qui le persone non le scegli
Ti capitano
Le prendi così come sono
Come vengono
Ma la barca è la stessa e ti piace remare con loro
Verso la stessa direzione.

15.5.10

Un portachiavi

Non passerò più le notti a guardare questo soffitto, ad appiccicargli i sogni aspettando che qualcuno li raccolga.

Ci vuole pazienza - sembra ce ne voglia parecchia - ma io non ho ben chiara la tempistica, non conosco i tempi adatti alla maturazione; ci ho sempre capito poco con tutto ciò, con il seminare e il raccogliere, il dare e il ricevere, secondo me sempre di attesa si tratta. E l’attesa, lo sappiamo, mi fa schifo. Così, quello che credo di avere capito, è che la rassegnazione, l'abbattimento, vanno scalciati con la pazienza. Ci vuole pazienza, dell’altra, perché primo o poi il vento arriva per ognuno, passa sopra e se ne va. Assieme ai nostri sogni. Anche loro se ne andranno, li aiuteremo a scegliere se cadere o volare. Ma per prima cosa siamo noi, tocca a noi avere pazienza, non ai sogni, loro stanno lì, appesi a testa in giù e profumati di spezie, pronti.

Perché primo o poi il vento arriva per ognuno, passa sopra e se ne va. Si va nel verso giusto, che poi, forse, è proprio quello sbagliato, perché a volte occorre un passo falso per capire come si cammina, dove si camminerà; serve un inciampo, poi metti un piede dietro l’altro e non ci cadi più, hai preso il via. Sei il vento e il mondo ce l’hai in tasca, un portachiavi.

12.5.10

I gatti non sono delle volpi

I miei giocattoli stavano sparsi sul pavimento, stavano bene, c’erano le favole e nulla di liquido. Oggi no, i giocattoli se ne sono andati, e con loro qualche favola; oggi ci sono solo i miei pensieri nell’aria, sparsi sì, liquidi pure.

I miei pensieri sono i giocattoli del vento, variabili ad ogni folata di novità. Come se le novità portassero davvero disordine: le novità si sistemano con cura nelle crepe dei vecchi muri, quelli scrostati - allora portanti - e che ti piaceva scrostare ogni volta che non avevi nient’altro a cui pensare. Anzi, ogni volta che ti sembrava d’avere solo quello a cui pensare.
Quanto tempo passato davanti a quei muri, i muri del pianto con cui avresti voluto tanto fare a pugni. Scrostavi, scrostavi e cercavi le lucertole: quando ne trovavi una senza coda, pretendevi di salvarla, dimenticando di averla mutilata tu stessa, magari proprio il giorno prima. Sì, l’avevi data al gatto per giocare.

I ricordi brutti sono come le lucertole nei vecchi muri, quelli scrostati - magari portanti - e che ti piaceva scrostare; le lucertole s’infilano veloci tra le crepe, ci fanno le uova, si moltiplicano. E tu ci strappi le code perché i brutti ricordi non vuoi farli crescere ancora, non più: ma sai, le code si ricompongono.
I brutti ricordi hanno logiche strane: sono brutti e bruciano, eppure, alla fine, continui a preferire il masochismo, continui a fare il gatto, che con le code strappate ci gioca. Finisci sempre che coi brutti ricordi ci vai a giocare volentieri, li stringi tra le zampe, le mani, credendoli fatti di pongo, credendo di poter cambiar loro la forma; allora non hai capito, i gatti non sono certo delle volpi: se i ricordi sono brutti, brutti rimarranno.