27.4.11

Tornare indietro

Chi arriva a voler tornare indietro, o almeno ad affermarlo, cade in trappola, tutt’intero, nella morsa dei rimorsi. Nel momento in cui lo dirà, di voler tornare indietro, finirà per dirlo sempre più spesso, malignandosi pure. Ne uscirà tagliato a pezzi e noterà solamente i pezzi mancanti, quelli che non è riuscito a raccogliere, infilare nel suo cestino; allora gonfierebbe a dismisura il suo capriccio, la volontà di fare retromarcia e andare a prenderseli tutti, con la convinzione di poter raggiungere la completezza, coronare la perfezione. È un po’ un credo comune: rivivere ciò che si è già vissuto per riviverlo meglio, senza timidezze né sbagli. Ma chi può affermarlo? Chi può sapere se ripercorrere la seconda volta, la terza, la quarta, la stessa foresta, significhi davvero evitare i sentieri più intralciati? Migliorarsi ed arrivare senza un graffio, senza una ferita dolce da far leccare al nuovo amore?


Avevo smesso di sognare, non so nemmeno di preciso quando, avevo smesso e avevo deciso di lasciar passare il tempo finché non avessi dimenticato come si facesse. Avevo smesso di sognare perché a vent’anni mica puoi vivere ancora di quello, non basta continuare a tenere i cassetti in disordine, le braccia conserte, le chiavi sparse, indugiare a lungo e starsene lì, fermo a guardare e a farci i sogni sopra; a vent’anni, in automatico, aumenta la paura, è un attimo e da fermo che eri, ti ritrovi in paralisi.
Ciò che mi appariva così lontano, quel traguardo che non sapevo nemmeno che forma avesse, di che sostanza fosse, mi si era messo davanti a coprirmi il sole, incline ad inghiottire. Quel minuscolo puntino in controluce, che brillava su uno sfondo mai nitido, aveva accelerato tutt’un tratto, tanto da non farmi gustare a sufficienza la sua scia.

Se tornassi indietro, nel senso di dimensione, in quello spazio temporale cristallino – privo di qualsiasi cicatrice – nonché in via di cristallizzazione – fisso immobile nei raggi del mio tramonto in crescere – la sua scia la percorrerei di nuovo, non ho dubbi, la percorrerei di nuovo e persino più volte: perché è un istante conciso di ognuno di noi, un intervallo dissolto prima che qualcuno se ne accorga. Io voglio accorgermi, immergermi, sfiorare il fondo e risalire di rado, giusto quanto basta a riprendere fiato. Voglio tornare indietro per catturare i particolari che mi erano sfuggiti la prima volta, adombrati negli angoli più bui, in cui non azzardavo spingermi oltre; ripercorrerei quel che fu con più attenzione, che non vuol dire prudenza, ma partecipazione, trasporto, consapevolezza, cognizione di causa, attaccamento, con la bocca aperta a cambiare le parole che mi erano uscite male e assorbire tutte quelle che non avevo ascoltato. Mi lascerei coinvolgere, perché il ricordo si conserverebbe più vivo, e non si rischierebbe di invecchiare ricordando perfettamente di cose che ‘non’ sono successe.
Mi volto, ma è tardi, ma vorrei ricominciare.
E pensare che fino a poco fa ritenevo fosse una fase che non potesse avere scadenza, anzi, a dirla tutta, non mi sembrava nemmeno una fase, mentre la scadenza ce l’aveva eccome e forse ce l’avevo anch’io; c’erano i sogni, poi scaduti, le cose fresche, i respiri senza sospiro, gli acerbi progetti e le piccole scuse. Non potevo ancora rendermi conto di stare affrontando un'interfase, la fase di mezzo ma felice; come/insieme a me, molti altri, passeggeri che osservavano il paesaggio da un oblò cercando di vederci l’orizzonte: mi appariva così flebile nel rosa del cielo, tremolava sotto le mia dita, modellabile quasi fosse carta d'origami. Magari, a saperlo, l'avrei perfino condotta da un’altra parte dell’universo, quella scia, la scia del mio aeroplano.

Quando eri venuto tu, quello nuovo, ti eri seduto proprio in quel posto rimasto vuoto accanto al mio, anche se non era affatto un caso che lo fosse: dicevo a tutti che era occupato così tutti mi avrebbero chiesto chi stessi aspettando, ma poi non arrivava nessuno e finì che nessuno mi chiese più niente. Mi avevano scambiato per una tipa strana. Del resto, che non aspettavo nessuno era vero, che era occupato un po’ meno, ma mi piaceva che gli altri lo pensassero, tutto qui. Non per questo avrei dovuto essere una tipa strana.
Tu, invece, ti eri seduto senza chiedere permesso, ma non certo per cafoneria, si capiva che sapevi il fatto tuo, come quelli che salgono sull’autobus e glielo leggi in faccia che sanno dove stanno andando. Eri di una compostezza che non faceva fiatare, un minimo gesto avrebbe disturbato il tuo pensare contegnoso, riservato. Non avevo mai incontrato nulla di simile, di una razza senza genere; avvertivo la tua aura accarezzarmi i capelli, mi stava facendo il solletico, provava a leggere nella mia pelle, eppure ti eri portato le tue cose da fare, il tuo sguardo impegnato era rimasto rivolto altrove, non su di me. La sensazione era quella di un piacere irrazionale, che scavava un buco da qualche parte dentro il mio corpo, non capivo cosa stesse per succedere; non riuscivo a dirti di smettere. Avevo smesso di sognare da poco, non avevo più vent’anni e tu lo sapevi, anche se non ti ho mai chiesto come ci fossi arrivato; ero convinta di sfoggiare un’espressione impenetrabile, perfetta per giocare a poker, dove capirci qualcosa sarebbe stato impossibile; pertanto avevo supposto che o tu comprendevi l’impossibile, o io non avevo nessuna espressione impenetrabile. Mi stavi mettendo alla prova e avevi tutta l’intenzione di farmi cedere: ti eri avvicinato al mio corpo, non più rigido, da te già accuratamente bucato, e ti eri messo a sussurrarmi delle storie, a cui credetti fin da subito, perché erano belle, o eri tu, bravo, a farle finire bene. Volevo cedere. E non lo feci. Non avevo lasciato che t’infilassi sotto le coperte della mia vita, a riscaldarmi il letto, a sognare insieme a me; non lo feci, io avevo smesso di sognare, io non avevo più vent’anni. Mi hai lasciato i buchi.

Quanto darei per essere lì, con te, adesso, per ascoltare tutto quello che hai dire, per vederti attraverso e vederci il mondo. Il tuo, che un po’ assomiglia al mio, perché forse i colori che hanno usato sono gli stessi. Quanto darei per tornare indietro, farmi bucare a lungo. Quanto darei per essere lì, con te, adesso, per dirti di smetterla di parlare, per farti dire che tutto quello che mi avevi detto era una bugia. Che le tue storie erano invenzioni. Che eri tu il primo a stare cercando un letto caldo per dormirci accoccolato, svegliarti al mio fianco, nel nostro calore.
Mi volto, ma è tardi, ma vorrei ricominciare.
Devi sapere che anch’io ti ho mentito, che quello che ho sempre voluto da quando ti avevo visto dentro e ci avevo visto il mondo, era cedere, farti entrare di diritto sotto le mie ali, senza permesso. Quello che ho sempre voluto era sognare insieme a te.


Vorreste tornare indietro, molto indietro, e urlare alla ragazza che eravate: amalo, maledetta idiota?

9.4.11

Pensavo

Ti ricordi ancora quando hai smesso di fumare? Quando eri venuto da me ripetendomi che ce l'avevi fatta e che avevi capito chi essere da grande? Io non ti avevo creduto, ma poi fui obbligata a crederci con te: crescere aumenta il desiderio di fuga.
Me lo avevi ripetuto così a lungo, quella sera, che al risveglio ti avevo accompagnato fino alla stazione. Nella notte, però, nella mia poltiglia celebrale, ero tornata a supporre che ti fossi fissato, che fosse solamente un altro dei tuoi soliti trip. Tu invece non avevi chiuso occhio ed eri ancora più convinto di prima. Ti accompagnai perchè mi faceva piacere, anzi, mi piaceva proprio. Mi divertivo a guardarti guardare ripetutamente il mio orologio, furtivo, zitto; lo portavo di rado, se non solamente in questo genere di cose, circostanze di una certa frequenza, quando eri tu a dover partire: non avrei sopportato di sentirmi chiedere ininterrottamente che ore fossero. Quella volta ci desti almeno una decina d'occhiate, perchè tutte le altre, fui di certo io a non farci caso. Eri sempre stato un tipo ansioso, non lo ammettevi, eppure ti conoscevi abbastanza per rendertene conto. Di persone come te ce n'erano molte. Venivi preso dall'ansia se non si facevano le cose stabilite, finivi col non essere più capace di rompere gli schemi. Per questo ti stavo accompagnando, sapevo bene come funzionasse, appena saresti stato lontano da me, la tua passione per il rischio avrebbe incontrato la paura, quella paura che conosceva perfettamente dove abitavi perchè era la stessa che ti riportava indietro.
Ti avevo salutato senza moniti minacciosi o da pacchetto di sigarette, non sarebbe servito, e mi misi ad aspettare; ti avevo dato due o tre giorni al massimo, poi ti avrei rivisto sulla porta di casa, con le scarpe pulite, tutt'un fremito, tra le gambe la coda. Ti avrei fatto sedere accanto a me nel letto e avremmo ripreso a celebrare la presunta unicità del nostro rapporto, distesi nella nostra bolla biposto, dediti l'uno all'altro. Forse più io a te.

Durante l'attesa mi era capitato di pensare ai dieci anni trascorsi insieme; in realtà mi capitava anche nei giorni qualunque, in bagno, a scuola, in auto, non c'era nessuna differenza; ci si dedica a un legame senza cercare alcuna ricompensa e dieci anni della propria vita volano via in un attimo. Mi faceva effetto. A unirci era l'abitudine, non lo so, una specie di amore silenzioso, paziente, noncurante, non mi aspettavo nulla di più di una spremuta a colazione; per quella, ti perdonavo persino il dentrificio colato sul lavandino e i calzini spaiati, o le cannucce masticate e le penne senza tappo. Era buona la tua spremuta.
Non ero mai stata adatta per l'amore, nè di rendere lunghe certe storie, preferivo appendere i panni, lasciarli asciugare per mesi, le questioni in sospeso mi davano più stabilità, ci pensava il vento a portarsi via tutto, e io ne uscivo senza mani legate. Era facile così, mi guardavo il panorama dall'alto, non scendevo nei sottopassaggi nè mi perdevo nelle retrovie, laddove entrare significa uscirne puzzando da schifo per mesi. Non facevo apposta, mi veniva naturale, non m'impegnavo a non intromettermi, stavo al mio posto, forse subivo.
In più, tendevo a concentrarmi troppo sull'adesso perchè avevo la triste convizione di poter indovinare ciò che sarebbe accaduto, il futuro mi sembrava così noioso. Pertanto evitavo, evitavo il futuro e i suoi progetti. Li lasciavo a te, tu sì che ci sapevi fare, buffone da compagnia, tu il futuro lo leggevi sotto la pianta dei miei piedi. Non sapevo mai fino a che punto giocassi, so però che con te, da subito, avevo avuto la sensazione di respirare aria pulita, e ciò mi bastava. Pensavo ad altre metafore, diverse da quelle del caminetto: con te era come quando ti arriva il profumo dei fiori di pesco, come quando la neve cade e fuori è tutto avvolto nel silenzio. Mi avevi aiutato a essere meno realista, a lasciarmi affidare al flusso della corrente, seppur senza troppi risultati. Pensavo tu mi amassi anche per questo, perchè non ci riuscivo, perchè non ero in grado di esteriorizzare quel qualcosa di rosso e fulgente che mi brillava tutto il giorno nel petto. Mi dicevi che se qualcuno mi guardava dall'esterno, non lo vedeva, nè io facevo nulla perchè lo potessero vedere. Però tu un modo per vederlo lo avevi trovato; eri diventato bravo a cogliere le intuizioni dei momenti in cui ti abbracciavo egoista, solo per me, mentre camminavamo in strade di tranquilla malinconia.

All'inizio era diverso, tu eri diverso. Da me, dico. Mi vantavo di averti conosciuto sotto una stella fioca, in quelle stanze che non avevano ospitato mai nessuno che non fosse lavoro o qualche amico di una sera; sapevano di chiuso, ma io ci stavo bene. Per la gente non ero una tipa incline ad aprire i battenti, me ne stavo spesso in disparte, sigillata nei miei confini poco labili. In verità, per me, chiudere i battenti non vuol dire ritirata, piuttosto bozzolo o metamorfosi; avevo semplicemente smesso di dare confidenza al primo arrivato, non ci trovavo più nulla di bello in questo. Ero stata attenta nel tappare ogni spiffero, proprio perchè non volevo fare entrare dell'altro, porcheria qualunque. Così per anni ero rimasta dentro, sognando di essere un grattacielo organico, di avere il cervello al posto del cuore, l'unico condomino capace di amministrare senza sbavature o indecisioni; ero cemento e rifiniture di metallo, ero occhi come finestrini per guardarmi alle spalle, gambe saldate al pavimento e tubolari metropolitane al posto delle vene, così, dicevo, il sangue si mantiene freddo. Poi sei arrivato tu, mi hai chiesto come mi sentissi e io non avevo saputo rispondere. Allora mi spiegai che il sangue freddo è roba da morti, mi feci ridere. Abbassai la guardia.

Impiegai un pò a decidere se continuare a vederci. Pensavo spesso che se non avessi avuto il dono della parola, saresti stato perfetto. Parlavi tanto, a volte al mio posto, ma dovevo ammettere che in dieci anni in qualcosa eri migliorato, ti misuravi nei toni e iniziavi ad apprezzare il mio silenzio di prima mattina. Pensavo anche che se non avessi avuto il dono della parola, io non ti avrei mai detto quel che ti ho detto in risposta a quello che tu mi dicesti. Detestavo le carinerie. Mi piacevano di più i paragoni, suonavano meno dolci, niente mi poteva andare di traverso; quando ci avevi paragonato a vasi comunicanti, ero rimasta di stucco, perchè era come se lo avessi letto dalla mia mente, copiavi. Tu traducevi in parola ciò che io mi tenevo per me e che riguardava noi due. Eravamo vasi comunicanti che crescevano la stessa pianta, laddove tu ogni tanto ritornavi a esserne il concime, mi facevi stare dritta. E io mi davo della patetica da sola. Non mi spiegavo che uno come te, che da vendere avevi solo la faccia tosta, avesse capito il modo in cui volevo essere trattata. Credevo di aver avuto sempre il debole per i brillanti, i curiosi, gli onnivori, i creativi, i modesti, i colti, invece mi ero innamorata di un logorroico, anonimo, perditempo, disordinato, coccolone.

Dopo dieci anni, l'innamoramento passa. Sono passati tre giorni e qualcosa di più. Ma tu non passi. La pianta ha perso le foglie, non l'annaffiamo, sta iniziando a seccarsi. I battenti cigolano. Ma tu non passi. E io ho voglia di una tua spremuta.