6.12.11

Ci mettevamo a nudo

Mi nutrivo di sciocca immaginazione. Io che, da autoritaria, avevo aderito da tempo a modelli antisentimentali fino a paralizzare qualunque minima emozione. Ma tu, tale e quale a un visitatore proveniente da altri pianeti, ambulante col carro colmo di cassetti, eri venuto a portarmi l’immaginazione perduta. Avevi fatto scattare quel meccanismo misterioso della felicità, avevi raffinato il generatore di sorprese e prodotto un incantesimo, rendendomi vulnerabile, impaurita, esitante. L’avevi fatto apposta perché così ti sarei rimasta appiccicata, dipendendo dai tuoi cassetti di sogni per l’eternità. Fu un attimo ed eri già l’indispensabile, l’unica materia intima e calda che mi riempiva le giornate, la nuvola morbida e libera dove mettere al sicuro il meglio di me. Ero convinta che potessi insegnarmi tutto ciò di cui avevo bisogno. Eri un bravo raccontastorie: per ascoltarle, ero salita con te sopra i tetti, ero entrata con te nella casa sull’albero, ero arrivata con te a dondolarmi nei cieli notturni d’estate. Insieme, avevamo persino annusato la luna, sapeva di burro d’arachidi. Sì, il nostro era uno strano modo di fare salotto.

In verità, niente fu per caso. Ti avevo incontrato perché ci avevano fatti incontrare. Al primo sguardo ci eravamo sembrati ciò che eravamo. Poi ci avevamo messo in mezzo le parole ed eravamo finiti col crederci entrambi. Avevamo creduto che quelle parole, alla fine, potessero essere vere. Giorno dopo giorno, ci mettevamo a nudo l’un l’altro, ma per assurdo ci eravamo ricoperti di un’identità che non ci apparteneva per intero, un’identità che avevamo inventato sulla base dei nostri desideri, calcando in rilievo pregi e qualità: ci eravamo gonfiati. Ci amavamo perché corrispondevamo alle nostre vicendevoli fantasie, perché rientravamo in un ruolo preciso. Ma l’amore dovrebbe cominciare proprio quando l’altra persona esce dal ruolo assegnatole. Piuttosto, il nostro rapporto era di nicchia, era una bolla di sapone, colorata soltanto se guardata in controluce, capace di scoppiare a uno schiocco di dita, ovvero non appena uno dei due si fosse allontanato da quell’identità distorta. Ci mettevamo a nudo, ma era come se ci stessimo osservando dietro a lenti troppo spesse, sfiguranti o filtranti. Mi fidavo perché non avevo mai potuto vedere il tuo male.

A tratti riottenevo lucidità, mi sforzavo di pensare a tutte le cose brutte che mi univano a te, mi sforzavo di darci un peso che non avevo dato quando erano accadute, mi sforzavo di farle sembrar tante. Avevi la forza di uccidermi quando la superbia prendeva sopravvento e dalla tua bocca iniziavano a sgorgare presunzioni di ogni tipo, senza che te ne accorgessi. Masticavi la mia vita, succhiandomi via quel che di più gustoso trovassi, per poi sputarmelo in faccia appena ne avvertissi l‘urgenza. Solo così avresti potuto farti grande, soddisfarti sminuendo gli altri, quelli che amavi chiamare deboli. Perché ciò che era gustoso per te, era acido per me. Del resto, fui io a permetterti di destreggiare le mie insicurezze meglio di chiunque altro, tanto da farle tue e trasformarle nell’arma più potente per corrodermi. Giocavi facile, sporco e avevi capito perfettamente come uscirne a mani pulite. Sempre. Forse anch’io ti avevo spesso aiutato a lavarle, poiché ti avrei perdonato in qualsiasi circostanza.
Pensavi poco prima di parlare, ti pentivi postumo e allora provavi con la ruffianeria: dicevo di dartela vinta, ma in realtà ero la prima a perdere. Ti giustificavo nel ritenerti un pasticcione, un passeggiatore delle nuvole, un po’ incosciente, un pò timido nel chiedere scusa, perché magari capita, non volevo metterti in difficoltà più di quanto già non facessi col mio essere ingombrantemente presente. Purtroppo, questa tua bellezza, che stimavo rara su chilometri e chilometri, era macchiata di pura arroganza. Ostentavi un ego che avresti fatto meglio tenere nascosto. Ma quelli che si pretendono al di sopra degli altri non sono che la parodia dell'ego, fanno la voce grossa per celare la loro irrisolutezza, la loro scarsa volontà, il loro sentirsi inadeguati, piccoli. Quindi, non ero io, eri tu il primo ad avere davvero bisogno di me. Più mi uccidevi, più sapevo che quello era il mio posto. La mia missione era riportarti coi piedi per terra, chi se ne frega di quanti pugni avrei preso di nuovo. Ti avrei difeso, coccolato, spalleggiato. Sarei stata di nuovo il tuo scoglio, il tuo muro portante, il campanile, la montagna, la porta aperta, il rifugio. L’amore non è un modo per colmare le mancanze, esiste se iperbolico, incondizionato. Esiste se è fino in fondo. E il mio è fino in fondo. Lo sai. Devo semplicemente passare da te, mangiare una pizza sul letto e, nei tuoi cassetti non ordinati, tramutare convinzioni in umiltà. Vedrai, con l’umiltà, ti usciranno le stimmate del successo. Allora non occorreranno miracoli per farle sanguinare, giusto un po’ di disciplina.