6.12.11

Ci mettevamo a nudo

Mi nutrivo di sciocca immaginazione. Io che, da autoritaria, avevo aderito da tempo a modelli antisentimentali fino a paralizzare qualunque minima emozione. Ma tu, tale e quale a un visitatore proveniente da altri pianeti, ambulante col carro colmo di cassetti, eri venuto a portarmi l’immaginazione perduta. Avevi fatto scattare quel meccanismo misterioso della felicità, avevi raffinato il generatore di sorprese e prodotto un incantesimo, rendendomi vulnerabile, impaurita, esitante. L’avevi fatto apposta perché così ti sarei rimasta appiccicata, dipendendo dai tuoi cassetti di sogni per l’eternità. Fu un attimo ed eri già l’indispensabile, l’unica materia intima e calda che mi riempiva le giornate, la nuvola morbida e libera dove mettere al sicuro il meglio di me. Ero convinta che potessi insegnarmi tutto ciò di cui avevo bisogno. Eri un bravo raccontastorie: per ascoltarle, ero salita con te sopra i tetti, ero entrata con te nella casa sull’albero, ero arrivata con te a dondolarmi nei cieli notturni d’estate. Insieme, avevamo persino annusato la luna, sapeva di burro d’arachidi. Sì, il nostro era uno strano modo di fare salotto.

In verità, niente fu per caso. Ti avevo incontrato perché ci avevano fatti incontrare. Al primo sguardo ci eravamo sembrati ciò che eravamo. Poi ci avevamo messo in mezzo le parole ed eravamo finiti col crederci entrambi. Avevamo creduto che quelle parole, alla fine, potessero essere vere. Giorno dopo giorno, ci mettevamo a nudo l’un l’altro, ma per assurdo ci eravamo ricoperti di un’identità che non ci apparteneva per intero, un’identità che avevamo inventato sulla base dei nostri desideri, calcando in rilievo pregi e qualità: ci eravamo gonfiati. Ci amavamo perché corrispondevamo alle nostre vicendevoli fantasie, perché rientravamo in un ruolo preciso. Ma l’amore dovrebbe cominciare proprio quando l’altra persona esce dal ruolo assegnatole. Piuttosto, il nostro rapporto era di nicchia, era una bolla di sapone, colorata soltanto se guardata in controluce, capace di scoppiare a uno schiocco di dita, ovvero non appena uno dei due si fosse allontanato da quell’identità distorta. Ci mettevamo a nudo, ma era come se ci stessimo osservando dietro a lenti troppo spesse, sfiguranti o filtranti. Mi fidavo perché non avevo mai potuto vedere il tuo male.

A tratti riottenevo lucidità, mi sforzavo di pensare a tutte le cose brutte che mi univano a te, mi sforzavo di darci un peso che non avevo dato quando erano accadute, mi sforzavo di farle sembrar tante. Avevi la forza di uccidermi quando la superbia prendeva sopravvento e dalla tua bocca iniziavano a sgorgare presunzioni di ogni tipo, senza che te ne accorgessi. Masticavi la mia vita, succhiandomi via quel che di più gustoso trovassi, per poi sputarmelo in faccia appena ne avvertissi l‘urgenza. Solo così avresti potuto farti grande, soddisfarti sminuendo gli altri, quelli che amavi chiamare deboli. Perché ciò che era gustoso per te, era acido per me. Del resto, fui io a permetterti di destreggiare le mie insicurezze meglio di chiunque altro, tanto da farle tue e trasformarle nell’arma più potente per corrodermi. Giocavi facile, sporco e avevi capito perfettamente come uscirne a mani pulite. Sempre. Forse anch’io ti avevo spesso aiutato a lavarle, poiché ti avrei perdonato in qualsiasi circostanza.
Pensavi poco prima di parlare, ti pentivi postumo e allora provavi con la ruffianeria: dicevo di dartela vinta, ma in realtà ero la prima a perdere. Ti giustificavo nel ritenerti un pasticcione, un passeggiatore delle nuvole, un po’ incosciente, un pò timido nel chiedere scusa, perché magari capita, non volevo metterti in difficoltà più di quanto già non facessi col mio essere ingombrantemente presente. Purtroppo, questa tua bellezza, che stimavo rara su chilometri e chilometri, era macchiata di pura arroganza. Ostentavi un ego che avresti fatto meglio tenere nascosto. Ma quelli che si pretendono al di sopra degli altri non sono che la parodia dell'ego, fanno la voce grossa per celare la loro irrisolutezza, la loro scarsa volontà, il loro sentirsi inadeguati, piccoli. Quindi, non ero io, eri tu il primo ad avere davvero bisogno di me. Più mi uccidevi, più sapevo che quello era il mio posto. La mia missione era riportarti coi piedi per terra, chi se ne frega di quanti pugni avrei preso di nuovo. Ti avrei difeso, coccolato, spalleggiato. Sarei stata di nuovo il tuo scoglio, il tuo muro portante, il campanile, la montagna, la porta aperta, il rifugio. L’amore non è un modo per colmare le mancanze, esiste se iperbolico, incondizionato. Esiste se è fino in fondo. E il mio è fino in fondo. Lo sai. Devo semplicemente passare da te, mangiare una pizza sul letto e, nei tuoi cassetti non ordinati, tramutare convinzioni in umiltà. Vedrai, con l’umiltà, ti usciranno le stimmate del successo. Allora non occorreranno miracoli per farle sanguinare, giusto un po’ di disciplina.

15.9.11

Buchi neri

Non mi mancava nulla. Avevo vent'anni e mi sentivo parte della cerchia favorita da Dio, perché, il più dei giorni, stavo come Lui. L’unica a cui dovevo veramente qualcosa era mia madre, per il resto, non conoscevo rammarichi, né sensi di colpa. Avevo una testa che, a differenza delle bocche di paese, mi piaceva usare; avevo amici che, conficcati nel cuore come spilli, bastavano per cucirmi le giornate: il mio amore era quello, era per loro, intatto e completo, non avrei minimamente potuto mettermi con qualcuno. Che gusto ci sarebbe stato a spartire la mia personale avventura? Essere in due contro tutti e non riuscirci da sola? Non ci vedevo vantaggi nel complicarmi la vita. Scegliere una persona da tenere vicino sarebbe stato come tagliarsi le gambe in partenza. E io non volevo. Io dovevo ancora raggiungere l’altra parte del mondo, capire di che materia fosse fatto, saltandoci sopra e rovistandoci un po‘, scoprire che debolezze e vulnerabilità non sono le vere attrazioni, ma che in realtà, dietro al tendone da circo, c’è molto di meglio di qualunque copione ben recitato, recitato perfettamente, con le lacrime agli occhi. Ero stanca di vittime e lamenti. Io ero per il felicismo, il presentismo, l’attivismo, l’acrobatismo, il survivalismo, il cosmopolitismo, perché non accettavo compromessi o poltronerie, perché esigevo determinazione, fantasia, coraggio, correndo il rischio, un rischio responsabile, capace di farmi volare alto senza cadere mai. Ero totalmente in preda ad applicare le formule della giovinezza, volevo provarle tutte e per intero. Poi, forse, sul finale, avrei potuto fermarmi. Farci un pensierino. Forse. Ma a vent'anni no, a vent'anni si sta bene da soli.

Così avevo imparato a gestire le relazioni. Le studiavo, le amavo, amavo i loro concatenamenti, gli avviluppi delle esistenze altrui. Amavo curiosarci dentro per scovarci i buchi neri: riempire quelli degli amici e dilatare quelli di coloro da cui sarei subito fuggita. Gli facevo male. Per me, l’amore, non era che una sfumatura, un’ombra, che come il buio fa paura. Per i molti che passavano sotto casa, a raccontarmi le loro storie, invece, sembrava essere pura sofferenza, malinconia, smania. Non fu difficile decidere a priori di mantenerne le distanze. Dicevo di stancarmi in fretta, e un pò era vero, mi vietavo le seconde possibilità, le vietavo agli altri, preferivo concedermi ai sentimenti degli amici, agli interlocutori bisognosi di conforto: ascoltavo con attenzione, non mi distraevo, coglievo il loro tono di voce cambiare, cercando di strappare sorrisi con le mie ultime parole. Amavo, insomma, per riflesso. E fuggivo, sempre.
Appena mi accorgevo di star lasciando un segno nelle loro vite, tagliavo la corda, nessun preavviso. Agivo di sorpresa, volontariamente, per fare ancora più male. Come se dovessi rivendicare un dolore mai avuto e come se, la libertà, si raggiungesse davvero fuggendo.
Avevo soprattutto imparato ad aprire impercettibilmente le gambe: lo facevo per ottenere tutto ciò che mi pareva. Ero divenuta un’esperta nella parte di confidente, alleata, amante, perché particolarmente abile nel distillare i rapporti. Mi piaceva pensare di essere come i disegni sulla sabbia o sul ghiaccio: durano poche settimane o qualche minuto, poi la marea li inghiottirà. Andarsene insieme alle onde, per me, non poteva che essere un sollievo. Quel che di mio rimaneva tra i loro denti, sarebbe stato digerito, le mie esili tracce sarebbero a poco a poco scomparse. Facevo del male, ma insegnavo che tutte le cose belle sono storte, inclinate, inclini a scivolare via.

Ieri era una di quelle albe estive che nel momento in cui ti illuminano, ti distruggono. Mi sono svegliata presto. Nello specchio non c’era più la ragazza dei vent’anni. C’era una donna, aveva la faccia piena di rughe, le narici aperte. Aveva due buchi neri al posto degli occhi, ma era fuggita prima che io potessi riempirli. Mi ero fatta del male.

11.7.11

Avanti il prossimo

Erano trascorsi appena due inverni da quando aveva pronunciato il mio nome e io non mi ero voltata. Avevo avuto il presentimento che, se lo avessi fatto di nuovo, non sarei più riuscita a liberarmi da ciò che stavo continuando ad amare, da ciò che forse stavo amando - per finta - solo perché qualcuno me lo aveva lasciato credere - per davvero. In breve tempo, sarei ritornata a convincermi che la nostra corda, quella che ci teneva uniti, poi stritolati, fosse stata inventata apposta per noi, per non spezzarsi mai: avrei proseguito con l’inciamparci ancora e all’infinito, certa che, senza di lui, non sarei stata che niente.

Non mi ero voltata. Due giorni sarebbero bastati per gettarmi alle spalle una vita e riprendere in mano ciò che avevo abbandonato a metà. Io stessa ero tutta una metà, poiché l’altra era sempre stata lui. Ma ho capito tardi che non era affatto quella dolce, piuttosto, si trattava di narcotico: al primo morso entrai nel torpore, al secondo, me ne innamorai, al terzo, non mi sarei più voluta nutrire d’altro. Così iniziai a percepire una realtà offuscata, come se intorno a me non ci fosse nessuno all’infuori di lui. La sua esistenza sarebbe da lì a poco sconfinata nella mia e io ne sarei rimasta completamente travolta. Il fiume di amore in potenza che conservavo fermo e stagnante da anni, aveva di colpo straripato gli argini della mia logica fredda: mi sembrava di respirare a pieni polmoni, eppure stavo affogando in un’ondata di dipendenza affettiva. Quando lo intuii, avevo già dimenticato cosa significasse possedere un cuore puro.

Ero una ragazzina dalla bocca imbronciata con il debole per gli uomini. Collezionavo una sfilza di relazioni passeggere e vantavo conoscenze di secondo livello, ma non avevo avuto nulla che potesse essere definito storia, forse perché ogni volta cercavo di evitarlo. Ci provavo gusto nell’apparire sfuggevole, poco malleabile, spavalda; senza troppa fatica, mi ero costruita la mia nomea e il mio harem, e ci stavo benissimo. Ero munita di bambolotti idonei a qualsiasi evenienza, avevo ridotto i miei coetanei in miniature e li avevo posizionati sul comodino, tali e quali a abat-jour. Li accendevo non appena l’umore azzardava a scendere sotto la soglia di sicurezza. Pericolosamente. Ma il sesso amichevole, nonostante mi avesse donato invulnerabilità e calore, si rivelò del tutto vano, non era altro che la tacita ricerca di un conforto: ero più sola di tutti i miei personali giocattoli animati.
Lui mi raggiunse nel pieno di quegli scambi di piacere, quando mi consideravo un’esperta in termini di effusioni e usavo il fisico in modo estremo. Mi raccolse e mi rimise a nuovo, in piedi. Impiegò più di un pomeriggio a ripulirmi dalle macchie più scure. Provai una sensazione di solletico, nessun fastidio. Di strato in strato, grattò via le ombre dei miei errori, quasi a volermi premunire, quasi a volersi prendere cura di ciò che sognavo da bambina. Smisi di avere il broncio. Lo fece con una simile minuzia, gentile e ricurvo, che intesi subito che quegli errori, i miei, probabilmente li aveva compiuti anche lui, gli stessi, solo dodici anni prima.

Faceva l’architetto e aveva viscere imbrattate di passione. Un po’ tutti lo conoscevano, sebbene abitasse in periferia - per scelta, più che per comodità. C’era persino chi avrebbe pagato per essere come lui. Anch’io. Invidiavo il suo cervello algoritmico che gli permetteva di trovare soluzioni corrette davanti a qualunque difficoltà; non avevo mai conosciuto quel genere di prontezza nelle risposte, non sgarrava, non fuoriusciva dai contorni. Tuttavia, se lo avesse fatto, non me ne sarei neppure accorta. Da cinica, ubriaca e noiosa, stavo per fare la fine di tutte coloro che si riscoprono romantiche: annullarmi. Ciò che ai comuni mortali sarebbe parso come probabile, io lo scambiavo per vero. Mi fidavo ciecamente di lui. Era in grado di cogliere tutto quello che mi sfuggiva, ancor prima che io stessa riuscissi a capirlo. In più, possedeva l’inspiegabile capacità di regalarmi tranquillità in grandi porzioni. Percepivo le sue idee come incrollabili principi da seguire, erano musica al pianoforte, le ascoltavo per intero, ammutolita. Prendevo appunti con gli occhi e annuivo.
Capitava, poi, che facessi i capricci, chiedendogli continuamente di disegnarmi il nostro nido: così disegnava il nostro loft, ma non era soltanto il nostro loft, era anche - e soprattutto - il modo in cui lo avremmo abitato. Ci eravamo promessi eternità. Ci credevo. Per me, lui, aveva sostituito il cioccolato, era diventato la mia indispensabile dose di endorfina quotidiana. Non ero più sola. Vivevo sul palmo della sua mano e bevevo da dove lui beveva, perché così avevo la percezione di sorgeggiare maggior felicità. Sarei stata felice per tutta la vita.

Non so chi me lo avesse mandato, ma era il regalo che ognuno spera di vedersi arrivare allo sbocciare di ogni primavera. Nel mio caso, fu un regalo che pagai a caro prezzo, cessando quindi di essere tale. Eppure ero convinta che dietro alla sua maschera di bugie, tra le sue mani troppo curate, qualcosa di buono ci fosse. Mi aveva insegnato a sentirmi, ad ascoltare i miei bisogni, a comportarmi senza adattarmi agli atri, zittendo l’esterno e i suoi mormorii. Mi aveva addestrato a dare alle nuvole la forma che volevo, o meglio, che lui voleva, giocando a manipolare il mio DNA per rendermi sua immagine e somiglianza. Mi ero lasciata imprigionare dalle sue ciglia, perché erano lunghe come sbarre. Mi ero fermata, avevo perso l’appetito, la curiosità di scoprire cosa esistesse oltre a lui. Pensavo che, al di là, non potessi trovare nulla di più perfetto. Oggi, però, dove andasse il nostro legame nessuno può dirlo. Sono sicura fosse un mondo insicuro e instabile, a cui non avremmo potuto dare un nome; un mondo in cui l’unica cosa che si potesse dire, è che piaceva a lui. Avevo avuto finalmente una storia che potevo definire storia, peccato solo che fosse venuta fuori male.

Avevo sentito dire che guardando le persone riposare è come se potessi leggere ciò che di loro resta inaccessibile agli altri. Quella sera il cielo era grigio plastilina, con un po’ di rosa imbarazzo, di verde menta, di giallo latte cagliato, e lui mi stava dormendo addosso. Lo faceva spesso, ma non l’avevo mai osservato a sufficienza. Era fragile, trasparente come una quercia di cristallo. Mi ero invaghita di un uomo che nemmeno mi attraeva, di un improvvisatore di scuse, di un geloso travestito da angelo. Mi accorsi che si era sfilato le ali. O non le aveva mai avute. Lo svegliai, gli parlai come avevo sempre fatto, lui mi fissava sotto ipnosi; gli feci domande trabocchetto su quello che gli stavo dicendo, per vedere se mi stesse ascoltando, ma balbettava e fumava il filtro della sua sigaretta: non era innamorato di me, né affascinato dalle mie belle parole. Soffriva di un male tutto mentale. E io, io gli avevo intravisto il suo segreto.

Avanti il prossimo.

26.6.11

Non è successo nulla

Non so cosa fare, di pensare sono stanca. Allora porgo la domanda a terzi di fiducia per lasciar rispondere loro al posto mio, ma poi ricevo risposte pressappoco identiche e nessuna di queste sembra voler assomigliare alla mia, o meglio, a quella che vorrei fosse la mia. Eppure gli concedo di analizzarmi dall’esterno, lo faccio per evitare di farlo da sola, come se ascoltando i pareri di tutti riesca meglio nelle mie decisioni e come se, in tal modo, le mie decisioni non diventino scommesse, ma dati di fatto, razionali.

Siamo diventati la quotidianità l’uno dell’altro senza commettere niente di speciale. Ci siamo colti tra le righe e scambiati le pagine dei nostri diari, inventandone a vicenda i finali. Poi ci siamo accorti che c’era un finale che poteva valere per entrambi: i due personaggi si incroceranno e vivranno per sempre felici e contenti, perché prima di essere personaggi, sono stati persone, belle persone, di quelle che è difficile incontrare per caso, al bancone del bar, ma che quando si incontrano tra loro costituiscono un patrimonio umano. È per questo che occorre salvaguardarci.
Due belle persone non ti fanno mancare i sorrisi e brindano guardandoti negli occhi. La strategia per distinguerle, mentre camminano assieme, è che le vedi avvolte da un’aurea di mitezza e complicità naturale, le seguiresti per ore e vorresti sapere tutto di loro. Hanno successo. Impareresti che amano scambiarsi le armature e gli elmetti, che sono persino un pò maniaci, un pò patetici, e che perdono tempo ad appuntire i propri talenti: devono essere le loro armi più efficaci. Non credere però che le belle persone non commettano errori, anzi, spesso sono peccaminose nel riconoscersi tali, persone di un certo valore, che non è proprio come essere valorosi. Noi, ad esempio, ci siamo mostrati più deboli e insicuri di ciò che già detestavamo essere, ma mi è comunque piaciuto essere un tuo bersaglio, con le tue freccette mi hai sempre colpito al nocciolo, senza farmi male. Non so di preciso cosa ne sia uscito, sicuramente niente di fondamentale, perché noi abbiamo preferito da subito le versioni complesse. Noi non ci soffermiamo sull’essenziale, ma sui dettagli reciproci. I tuoi dettagli sono ciò per cui ti ricorderò e per cui mi mancherai, ciò che fa di te la differenza nell'essere una persona di valore. Scintillante.

Pertanto, l’unica cosa che voglio, adesso, è un nostro abbraccio, di quelli stretti e dondolati, così mi diresti che ti viene il vomito e che soffri il mal di mare. Allora io mi fermerei, ma solo per rassicurarti che non è successo nulla, che sono nata per questo, per prendermi cura di te, e che il mio dondolio non è che la tua culla; sì, io sono un po’ come il tuo mare, il ben di mare, blu perché profondo di paure: le abbiamo legate insieme ai massi più grossi per lasciarle inghiottire dall’abisso, affinché tu potessi rimanere a galla. Sono il tuo mare e sono infinito, perciò è chiaro che non finirò mai, ma ti aiuterò ancora, ad ogni giro di boa, issando le vele e soffiandoci dentro, gonfiandole perché tutto possa procedere al meglio. Non è successo nulla. Buonanotte.

6.6.11

E tu? Tu cos'eri?

Ci ho provato tante volte a difenderti. A cercare di vederci qualcosa di buono, a sprecare fiato nel ribadire a tutti che non eri vuoto, infantile, superficiale, vanesio, egoista - perché così il primo venuto era solito dipingerti - ma che conservavi dell’altro, molto altro, e che facevi scorgere a pochi, molto pochi. Eri il regalo che ogni donna aspetta di scartare per una vita intera, e invece io ti avevo già ricevuto, senza rendermene conto, in età precoce o nel momento più sbagliato.

A dirla tutta, ci ho messo un po’ a conoscerti, a centrare il tuo bersaglio più debole, a definirti per bene i contorni. È sempre parecchio difficile tracciarli, tracciarli dritti - senza avere gli strumenti - precisi - senza fare sbavature - per poi, alla fine, ficcarci dentro le persone, inquadrarle come se si potesse applicare la geometria alla realtà, come se si potesse vivere per modelli, grafici e medie. Di sicuro, ci sarebbero variabili ed incognite a sostituire rischi e imprevedibilità. Chissà io che figura sarei - farei - ottusa o acuta? O perché non un bel tondo? Monotono, ripetitivo, di quelli che da qualsiasi angolazione tu li stia guardando, tondi rimangono, uguali. E tu? Tu cos’eri? Forse un poligono regolarissimo, perfetto, bravo ai fornelli e a rimboccare il letto, un poligono dai mille lati, perché eri tutto una sorpresa. Continua. O forse i contorni nemmeno li avevi, anzi, li avevi, ma li cambiavi ogni giorno, aggiungevi pezzi nuovi, mancanti, uno dopo l’altro. Così mi toccava cancellare ciò che avevo appena disegnato e disegnare da capo, con mano più ferma e sicura. Ma il giorno dopo avrei comunque dovuto cancellare ciò che avevo appena disegnato e disegnare da capo, la seconda, la terza, la quarta, la quinta. Oggi saprei disegnarti a memoria.

Sono trascorsi anni, li abbiamo trascorsi insieme, eravamo due bambini con il mondo stretto in pugno, affiatati, escogitavamo storie e ci facevamo grandi. La complicità che ci teneva stretti, era la nostra miglior strategia di gioco, nessuno arrivava a comprenderla e ci guardavano increduli mentre vincevamo sotto i loro i occhi.
In verità, anche noi eravamo mosche travestite da api, soffrivamo dello stesso mimetismo batesiano dei coetanei; più precisamente, noi, a differenza loro, pur compiendo gesti apparentemente identici - perché rituali e quotidiani - non eravamo portati a imitare, piuttosto, noi volevamo essere imitati. Ci piaceva stare in uno sciame affollato poiché, oltre ad essere i più operosi nel fabbricare miele, iniziavamo ad eseguire il processo di distinzione, di superiorità, peccando; ci sentivamo io regina e tu fuco, ci sentivamo i più speciali. Non peccavamo, lo eravamo.

Di norma, precedevo per prima, davanti, di fiore in fiore. Non era galanteria la tua, era che prendevo coraggio se mi stavi alle spalle, se mi seguivi. Lo facevi ad occhi chiusi, ti fidavi della mia voce perché aveva parecchio in capitolo; il mio consiglio andava per la maggiore, eri convinto che per ogni cosa che dicevi, io ne potessi dire sempre qualcuna in più. Ero diventata il tuo unico riferimento, ero il confronto che precedeva qualsiasi tua scelta, ero la panchina dove riposare e il confessionale dei tuoi segreti. E tu? Tu cos’eri? Me lo chiedevano in tanti, io rispondevo che nel nostro rapporto non esisteva malizia, che ci sono persone nate per starsene a braccetto, indipendentemente da uomo, donna, sesso, dimensioni, capelli ed età. Tu per me eri comprensione, eri un orecchio dove urlare e una guancia da far arrossire. Eri come riempire di spensieratezza il pomeriggio più bigio: mi allietavo se eravamo in due a sbadigliare. Passavo a riversarmi addosso i tuoi mali, ad annodarli in fazzoletti e a districarli insieme, perché così avrei pensato meno ai miei. Lo facevo per amore, un amore premuroso, attento, quasi materno, m’impegnavo a risolvere le situazioni in cui ti eri cacciato, cercavamo le soluzioni ai tuoi problemi e pianificavamo la migliore. Con te, tutto il resto svaniva. Mi rimanevi tu, il mio senso di protezione, il mio occhio di riguardo, la mia preferenza. Ero arrivata a prendermi anche le tue parti peggiori, perché mi incantavo a smussarti gli spigoli, ammonirti, riportarti a terra quando azzardavi salire troppo in alto; avevo il timore che ti potessi fare male se fossi partito dimenticando a casa il mio libretto delle istruzioni. Era come se per me non ci fossero divieti: entravo comunque, che la porta fosse aperta o socchiusa, e mi facevo forte del fatto che io sola avrei potuto; a loro, invece, non bastava nemmeno bussare, rimanevano fuori.

Ti avevo tolto gli spazi.

Quando me ne accorsi, stavi già sopportando abbastanza. Capii che avrei dovuto finirla, smettere di volerci essere ad ogni costo, soprattutto in quelle tante cose - tue - che non mi competevano, ma che ho sempre preteso di sapere, esigendo che non mi sfuggisse niente sul tuo conto. Io, sempre, dovevo vederci chiaro. Tu, del resto, mi avevi lasciato fare. Eri troppo buono, ma come avresti potuto dirmi di stare zitta, quando mi dovevi la tua maturità, il tuo senno e il punto esatto in cui ti trovavi? In fondo un po’ mi compativi. Pertanto decisi che non mi sarei più intromessa, promettendo di smettere di immischiarmi solo per il gusto di creare disturbo. Sarei rimasta nel mio recinto, lì, dove tutto mi apparteneva, non avrei continuato a saltare né fossi né steccati, perché mi sarei imbattuta nuovamente in territorio nemico, avrei agito allo scoperto, e allora sarebbe stato come andarsela a cercare. Non avrei più detto la mia a sproposito, ma avrei mandato giù e aspettato te, seduta, le gambe incrociate, le dita un po’ in bocca, il più possibile silenziosa, come una gallina che protegge le sue uova, che cova paziente il suo pulcino. Ti avrei accompagnato senza sgambetti, passi falsi o sorpassi azzardati, ti avrei accompagnato e basta. Ti avrei camminato accanto, lo avrei fatto per un lungo tragitto, fino a quando non mi fossi stancata, se mi fossi stancata, perché, nonostante i diverbi, le incomprensioni e le mie manie, avevo l’intenzione di rimanerti vicino, di ascoltare il tuo fiato salirmi all’altezza del petto. Non avevo paura della solitudine, ma delle sostituzioni; non avrei accettato che qualcuno potesse usare il tuo sguardo al posto mio. E tu? Tu cos’eri? Tu eri cresciuto. Eri cresciuto e non avevi più bisogno di me.


Non sarò la tua ombra, ma solo un braccio ad incastro, una spalla come appoggio, una mano da stringere, una carezza da dare. Lascia che ti accompagni, ti prego, ovunque tu voglia arrivare.

2.5.11

Grazie a K.

Ci sono luoghi che sgorgano d’umanità, sorgenti di peccato e risucchiatori d’anime. Si barattano i bicchieri, brindano i vizi. Sono luoghi di magia, poco importa se comuni, il mistero c’è, non svanirà. Eppure non puoi che sentirti terreno, incredibilmente terreno. Sono la nostra terra promessa, dove ciò che più conta non è la terra, ma la promessa. Quella che ogni anno manteniamo senza che qualcuno ce lo chieda, come un appuntamento mai fissato, ma a cui nessuno mancherà. Ci dev’essere un arcano non risolto, una forza occulta, un vincolo invisibile che ci lega, che ci guida fin laggiù: è un ciclo, nasci, muori, risorgi. Bene, là, risorgi. Ed è inspiegabile come tutto avvenga alla luce del primo sole. Ti ci immergi ad occhi aperti per poter guardarti intorno, scorgere il superfluo intento a far bagagli e andarsene. Con lui, i sensi di colpa, i brutti pensieri, gli affanni di una vita, in un fitto riaffiorare di fotogrammi, incollati insieme dal nostro ricordare ad alta voce, a gran voce, messi a fuoco dalle nostre bocche, alcuni storti, altri più dritti, ma comunque fotogrammi, fotogrammi di un’estate che già brama, un’estate che si ripeterà. È un ciclo.


Ci sono luoghi dove non occorre presentarsi al mondo; rivedi facce dimenticate riconoscerti, ti riscopri complice, amica, amante, compagna, confidente, bugiarda, come se il tempo avesse giocato di gesso, non di bisturi. Sei tu, te ne freghi della ruga aggiunta, sei tu, e sei a casa. L’immagine è quella di tanti cerchi, dai colori dell’arcobaleno, che si sovrappongono, che si collegano l’un l’altro a formare un universo. Ti ritrovi allo zenit, la linea sopra alla tua testa ha incontrato perfetta la sfera di quell’universo: ti circondi di mille sfumature, alla ricerca di quelle che ti si abbinano di più, perché sì, ti piace parteggiare quanto non ti piacciono gli indifferenti, e anche perché sei sfumatura tu stessa, alla deriva nell’aria. Il vento brulica di calore, schegge d’energia hanno iniziato a danzare una musica orgiastica, il cielo è all’unisono, l’odore è quello leggermente alcolico da ospedale, molto più che da ospedale. I muri crollano, la pelle si frantuma nella sabbia, profuma d’avventura, non c’è più il bisogno di soffrire, ciao fredda verità della ragione, ora sei dispensatrice di parole sussurrate in qualche abbraccio. L’amore ti ha toccato, ha scalato le tue vertebre per arrivarti dritto al cuore. Risorgi. E ti tirano i coriandoli.

27.4.11

Tornare indietro

Chi arriva a voler tornare indietro, o almeno ad affermarlo, cade in trappola, tutt’intero, nella morsa dei rimorsi. Nel momento in cui lo dirà, di voler tornare indietro, finirà per dirlo sempre più spesso, malignandosi pure. Ne uscirà tagliato a pezzi e noterà solamente i pezzi mancanti, quelli che non è riuscito a raccogliere, infilare nel suo cestino; allora gonfierebbe a dismisura il suo capriccio, la volontà di fare retromarcia e andare a prenderseli tutti, con la convinzione di poter raggiungere la completezza, coronare la perfezione. È un po’ un credo comune: rivivere ciò che si è già vissuto per riviverlo meglio, senza timidezze né sbagli. Ma chi può affermarlo? Chi può sapere se ripercorrere la seconda volta, la terza, la quarta, la stessa foresta, significhi davvero evitare i sentieri più intralciati? Migliorarsi ed arrivare senza un graffio, senza una ferita dolce da far leccare al nuovo amore?


Avevo smesso di sognare, non so nemmeno di preciso quando, avevo smesso e avevo deciso di lasciar passare il tempo finché non avessi dimenticato come si facesse. Avevo smesso di sognare perché a vent’anni mica puoi vivere ancora di quello, non basta continuare a tenere i cassetti in disordine, le braccia conserte, le chiavi sparse, indugiare a lungo e starsene lì, fermo a guardare e a farci i sogni sopra; a vent’anni, in automatico, aumenta la paura, è un attimo e da fermo che eri, ti ritrovi in paralisi.
Ciò che mi appariva così lontano, quel traguardo che non sapevo nemmeno che forma avesse, di che sostanza fosse, mi si era messo davanti a coprirmi il sole, incline ad inghiottire. Quel minuscolo puntino in controluce, che brillava su uno sfondo mai nitido, aveva accelerato tutt’un tratto, tanto da non farmi gustare a sufficienza la sua scia.

Se tornassi indietro, nel senso di dimensione, in quello spazio temporale cristallino – privo di qualsiasi cicatrice – nonché in via di cristallizzazione – fisso immobile nei raggi del mio tramonto in crescere – la sua scia la percorrerei di nuovo, non ho dubbi, la percorrerei di nuovo e persino più volte: perché è un istante conciso di ognuno di noi, un intervallo dissolto prima che qualcuno se ne accorga. Io voglio accorgermi, immergermi, sfiorare il fondo e risalire di rado, giusto quanto basta a riprendere fiato. Voglio tornare indietro per catturare i particolari che mi erano sfuggiti la prima volta, adombrati negli angoli più bui, in cui non azzardavo spingermi oltre; ripercorrerei quel che fu con più attenzione, che non vuol dire prudenza, ma partecipazione, trasporto, consapevolezza, cognizione di causa, attaccamento, con la bocca aperta a cambiare le parole che mi erano uscite male e assorbire tutte quelle che non avevo ascoltato. Mi lascerei coinvolgere, perché il ricordo si conserverebbe più vivo, e non si rischierebbe di invecchiare ricordando perfettamente di cose che ‘non’ sono successe.
Mi volto, ma è tardi, ma vorrei ricominciare.
E pensare che fino a poco fa ritenevo fosse una fase che non potesse avere scadenza, anzi, a dirla tutta, non mi sembrava nemmeno una fase, mentre la scadenza ce l’aveva eccome e forse ce l’avevo anch’io; c’erano i sogni, poi scaduti, le cose fresche, i respiri senza sospiro, gli acerbi progetti e le piccole scuse. Non potevo ancora rendermi conto di stare affrontando un'interfase, la fase di mezzo ma felice; come/insieme a me, molti altri, passeggeri che osservavano il paesaggio da un oblò cercando di vederci l’orizzonte: mi appariva così flebile nel rosa del cielo, tremolava sotto le mia dita, modellabile quasi fosse carta d'origami. Magari, a saperlo, l'avrei perfino condotta da un’altra parte dell’universo, quella scia, la scia del mio aeroplano.

Quando eri venuto tu, quello nuovo, ti eri seduto proprio in quel posto rimasto vuoto accanto al mio, anche se non era affatto un caso che lo fosse: dicevo a tutti che era occupato così tutti mi avrebbero chiesto chi stessi aspettando, ma poi non arrivava nessuno e finì che nessuno mi chiese più niente. Mi avevano scambiato per una tipa strana. Del resto, che non aspettavo nessuno era vero, che era occupato un po’ meno, ma mi piaceva che gli altri lo pensassero, tutto qui. Non per questo avrei dovuto essere una tipa strana.
Tu, invece, ti eri seduto senza chiedere permesso, ma non certo per cafoneria, si capiva che sapevi il fatto tuo, come quelli che salgono sull’autobus e glielo leggi in faccia che sanno dove stanno andando. Eri di una compostezza che non faceva fiatare, un minimo gesto avrebbe disturbato il tuo pensare contegnoso, riservato. Non avevo mai incontrato nulla di simile, di una razza senza genere; avvertivo la tua aura accarezzarmi i capelli, mi stava facendo il solletico, provava a leggere nella mia pelle, eppure ti eri portato le tue cose da fare, il tuo sguardo impegnato era rimasto rivolto altrove, non su di me. La sensazione era quella di un piacere irrazionale, che scavava un buco da qualche parte dentro il mio corpo, non capivo cosa stesse per succedere; non riuscivo a dirti di smettere. Avevo smesso di sognare da poco, non avevo più vent’anni e tu lo sapevi, anche se non ti ho mai chiesto come ci fossi arrivato; ero convinta di sfoggiare un’espressione impenetrabile, perfetta per giocare a poker, dove capirci qualcosa sarebbe stato impossibile; pertanto avevo supposto che o tu comprendevi l’impossibile, o io non avevo nessuna espressione impenetrabile. Mi stavi mettendo alla prova e avevi tutta l’intenzione di farmi cedere: ti eri avvicinato al mio corpo, non più rigido, da te già accuratamente bucato, e ti eri messo a sussurrarmi delle storie, a cui credetti fin da subito, perché erano belle, o eri tu, bravo, a farle finire bene. Volevo cedere. E non lo feci. Non avevo lasciato che t’infilassi sotto le coperte della mia vita, a riscaldarmi il letto, a sognare insieme a me; non lo feci, io avevo smesso di sognare, io non avevo più vent’anni. Mi hai lasciato i buchi.

Quanto darei per essere lì, con te, adesso, per ascoltare tutto quello che hai dire, per vederti attraverso e vederci il mondo. Il tuo, che un po’ assomiglia al mio, perché forse i colori che hanno usato sono gli stessi. Quanto darei per tornare indietro, farmi bucare a lungo. Quanto darei per essere lì, con te, adesso, per dirti di smetterla di parlare, per farti dire che tutto quello che mi avevi detto era una bugia. Che le tue storie erano invenzioni. Che eri tu il primo a stare cercando un letto caldo per dormirci accoccolato, svegliarti al mio fianco, nel nostro calore.
Mi volto, ma è tardi, ma vorrei ricominciare.
Devi sapere che anch’io ti ho mentito, che quello che ho sempre voluto da quando ti avevo visto dentro e ci avevo visto il mondo, era cedere, farti entrare di diritto sotto le mie ali, senza permesso. Quello che ho sempre voluto era sognare insieme a te.


Vorreste tornare indietro, molto indietro, e urlare alla ragazza che eravate: amalo, maledetta idiota?

9.4.11

Pensavo

Ti ricordi ancora quando hai smesso di fumare? Quando eri venuto da me ripetendomi che ce l'avevi fatta e che avevi capito chi essere da grande? Io non ti avevo creduto, ma poi fui obbligata a crederci con te: crescere aumenta il desiderio di fuga.
Me lo avevi ripetuto così a lungo, quella sera, che al risveglio ti avevo accompagnato fino alla stazione. Nella notte, però, nella mia poltiglia celebrale, ero tornata a supporre che ti fossi fissato, che fosse solamente un altro dei tuoi soliti trip. Tu invece non avevi chiuso occhio ed eri ancora più convinto di prima. Ti accompagnai perchè mi faceva piacere, anzi, mi piaceva proprio. Mi divertivo a guardarti guardare ripetutamente il mio orologio, furtivo, zitto; lo portavo di rado, se non solamente in questo genere di cose, circostanze di una certa frequenza, quando eri tu a dover partire: non avrei sopportato di sentirmi chiedere ininterrottamente che ore fossero. Quella volta ci desti almeno una decina d'occhiate, perchè tutte le altre, fui di certo io a non farci caso. Eri sempre stato un tipo ansioso, non lo ammettevi, eppure ti conoscevi abbastanza per rendertene conto. Di persone come te ce n'erano molte. Venivi preso dall'ansia se non si facevano le cose stabilite, finivi col non essere più capace di rompere gli schemi. Per questo ti stavo accompagnando, sapevo bene come funzionasse, appena saresti stato lontano da me, la tua passione per il rischio avrebbe incontrato la paura, quella paura che conosceva perfettamente dove abitavi perchè era la stessa che ti riportava indietro.
Ti avevo salutato senza moniti minacciosi o da pacchetto di sigarette, non sarebbe servito, e mi misi ad aspettare; ti avevo dato due o tre giorni al massimo, poi ti avrei rivisto sulla porta di casa, con le scarpe pulite, tutt'un fremito, tra le gambe la coda. Ti avrei fatto sedere accanto a me nel letto e avremmo ripreso a celebrare la presunta unicità del nostro rapporto, distesi nella nostra bolla biposto, dediti l'uno all'altro. Forse più io a te.

Durante l'attesa mi era capitato di pensare ai dieci anni trascorsi insieme; in realtà mi capitava anche nei giorni qualunque, in bagno, a scuola, in auto, non c'era nessuna differenza; ci si dedica a un legame senza cercare alcuna ricompensa e dieci anni della propria vita volano via in un attimo. Mi faceva effetto. A unirci era l'abitudine, non lo so, una specie di amore silenzioso, paziente, noncurante, non mi aspettavo nulla di più di una spremuta a colazione; per quella, ti perdonavo persino il dentrificio colato sul lavandino e i calzini spaiati, o le cannucce masticate e le penne senza tappo. Era buona la tua spremuta.
Non ero mai stata adatta per l'amore, nè di rendere lunghe certe storie, preferivo appendere i panni, lasciarli asciugare per mesi, le questioni in sospeso mi davano più stabilità, ci pensava il vento a portarsi via tutto, e io ne uscivo senza mani legate. Era facile così, mi guardavo il panorama dall'alto, non scendevo nei sottopassaggi nè mi perdevo nelle retrovie, laddove entrare significa uscirne puzzando da schifo per mesi. Non facevo apposta, mi veniva naturale, non m'impegnavo a non intromettermi, stavo al mio posto, forse subivo.
In più, tendevo a concentrarmi troppo sull'adesso perchè avevo la triste convizione di poter indovinare ciò che sarebbe accaduto, il futuro mi sembrava così noioso. Pertanto evitavo, evitavo il futuro e i suoi progetti. Li lasciavo a te, tu sì che ci sapevi fare, buffone da compagnia, tu il futuro lo leggevi sotto la pianta dei miei piedi. Non sapevo mai fino a che punto giocassi, so però che con te, da subito, avevo avuto la sensazione di respirare aria pulita, e ciò mi bastava. Pensavo ad altre metafore, diverse da quelle del caminetto: con te era come quando ti arriva il profumo dei fiori di pesco, come quando la neve cade e fuori è tutto avvolto nel silenzio. Mi avevi aiutato a essere meno realista, a lasciarmi affidare al flusso della corrente, seppur senza troppi risultati. Pensavo tu mi amassi anche per questo, perchè non ci riuscivo, perchè non ero in grado di esteriorizzare quel qualcosa di rosso e fulgente che mi brillava tutto il giorno nel petto. Mi dicevi che se qualcuno mi guardava dall'esterno, non lo vedeva, nè io facevo nulla perchè lo potessero vedere. Però tu un modo per vederlo lo avevi trovato; eri diventato bravo a cogliere le intuizioni dei momenti in cui ti abbracciavo egoista, solo per me, mentre camminavamo in strade di tranquilla malinconia.

All'inizio era diverso, tu eri diverso. Da me, dico. Mi vantavo di averti conosciuto sotto una stella fioca, in quelle stanze che non avevano ospitato mai nessuno che non fosse lavoro o qualche amico di una sera; sapevano di chiuso, ma io ci stavo bene. Per la gente non ero una tipa incline ad aprire i battenti, me ne stavo spesso in disparte, sigillata nei miei confini poco labili. In verità, per me, chiudere i battenti non vuol dire ritirata, piuttosto bozzolo o metamorfosi; avevo semplicemente smesso di dare confidenza al primo arrivato, non ci trovavo più nulla di bello in questo. Ero stata attenta nel tappare ogni spiffero, proprio perchè non volevo fare entrare dell'altro, porcheria qualunque. Così per anni ero rimasta dentro, sognando di essere un grattacielo organico, di avere il cervello al posto del cuore, l'unico condomino capace di amministrare senza sbavature o indecisioni; ero cemento e rifiniture di metallo, ero occhi come finestrini per guardarmi alle spalle, gambe saldate al pavimento e tubolari metropolitane al posto delle vene, così, dicevo, il sangue si mantiene freddo. Poi sei arrivato tu, mi hai chiesto come mi sentissi e io non avevo saputo rispondere. Allora mi spiegai che il sangue freddo è roba da morti, mi feci ridere. Abbassai la guardia.

Impiegai un pò a decidere se continuare a vederci. Pensavo spesso che se non avessi avuto il dono della parola, saresti stato perfetto. Parlavi tanto, a volte al mio posto, ma dovevo ammettere che in dieci anni in qualcosa eri migliorato, ti misuravi nei toni e iniziavi ad apprezzare il mio silenzio di prima mattina. Pensavo anche che se non avessi avuto il dono della parola, io non ti avrei mai detto quel che ti ho detto in risposta a quello che tu mi dicesti. Detestavo le carinerie. Mi piacevano di più i paragoni, suonavano meno dolci, niente mi poteva andare di traverso; quando ci avevi paragonato a vasi comunicanti, ero rimasta di stucco, perchè era come se lo avessi letto dalla mia mente, copiavi. Tu traducevi in parola ciò che io mi tenevo per me e che riguardava noi due. Eravamo vasi comunicanti che crescevano la stessa pianta, laddove tu ogni tanto ritornavi a esserne il concime, mi facevi stare dritta. E io mi davo della patetica da sola. Non mi spiegavo che uno come te, che da vendere avevi solo la faccia tosta, avesse capito il modo in cui volevo essere trattata. Credevo di aver avuto sempre il debole per i brillanti, i curiosi, gli onnivori, i creativi, i modesti, i colti, invece mi ero innamorata di un logorroico, anonimo, perditempo, disordinato, coccolone.

Dopo dieci anni, l'innamoramento passa. Sono passati tre giorni e qualcosa di più. Ma tu non passi. La pianta ha perso le foglie, non l'annaffiamo, sta iniziando a seccarsi. I battenti cigolano. Ma tu non passi. E io ho voglia di una tua spremuta.

1.2.11

E Dio grazie perché l’hai fatta così bella.

Poi dopo un anno e mezzo, ti manca. Ti manca, ti manca, ti manca. Ti manca perché è bella da morire, perché tutte le volte che scendi, sorride, lì, a braccia aperte, di quei sorrisi che ti ricordano che nulla è cambiato, che lei c‘è sempre stata perchè non ha mai smesso di esserci; è rimasta mentre fuggivi, ti ha guardato andare, ti ha lasciato fare, ma in fondo già sapeva, sapeva che sarebbe arrivato quel giorno: ti sei voltata e non hai più ritrovato un giusto modo per salutarla. Non sai da dove iniziare, come prenderla. Boh, chiedi scusa, hai trascorso anni a sputarci sopra, a sbeffeggiarla, stanca di quell’ostilità letta sulle facce della gente. Ti pareva troppo piccola per te, ma forse lo è anche, piccola. O forse eri tu che eri scontenta, come tutti coloro che vivono con la sensazione che gli manchi chissà che, proprio quando ce l’hanno sottomano. Nel tuo caso, sotto i piedi. Nelle piccolezze vedevi la noia uccidere gli stimoli, ma poi hai capito che nel vuoto si aprono gli spazi della creatività, che nel vuoto sei tu a dover montare le cose, senza esterni né istruzioni, sei tu a dover aprire le finestre sul mondo per non ridurti a guardare il mondo da una finestra.

Di finestre ne hai aperte, alcune qua e là, perché i sogni erano arrivati a sfiorare i soffitti e dentro non ci stavano più; così hai aperto a curiosare, avresti finalmente potuto conoscere come si faceva, cosa si sentiva. Non c’è peccato più grande di non fare di tutto per tentare di star bene, e tu ci hai provato, non hai colpe per esserti dimenticata ieri di lei, avevi altro a cui pensare. A chi è in gamba, a volte capita di diventare i primi nemici di se stessi, di giocarsi contro. Così è stato per te, fatta una scelta, è da intelligenti rimpiangere quello che si è perso; ci si rende conto che le finestre (aperte o ancora da aprire) sul mondo sono come le stelle, quante sono non lo sai. Però almeno ora hai imparato che c’è sempre una finestra a cui non importa per quanto tempo rimanga chiusa o abbandonata, una finestra che quando la apri, quei sorrisi li fa entrare lo stesso, ancora: si vanno a mettere all‘inizio della via, la via che porterà il tuo nome, s’infilano laggiù, dove hai mosso i primi passi, ti coprono le spalle e illuminano davanti tracciando la tua sagoma in un'ombra. Prosegui sapendo chi sei, da dove vieni, dove vai. È il tuo sole, la tua città. E Dio grazie perché l’hai fatta così bella.

10.1.11

Il lampione sotto casa s'accendeva proprio al suo passaggio, lei passava nella notte, forse per caso o forse no.

Il lampione sotto casa s’accendeva proprio al suo passaggio, lei passava nella notte, forse per caso o forse no, e tu fingevi ancora di non averci creduto, invece ricordi i lunghi abbracci che lei amava mettere al posto dei saluti, perché le parole venivano dopo, ed era il suo modo di fare. Che ha smesso di fare. Se il tempo andasse all’incontrario e seguisse il tuo vecchio diario, sapresti se è stato solo un sogno, per poi svegliarti di nuovo assieme a lei. Stai cercando qualcuno che torni a scrivere il seguito o la fine, che s’inventi un addio o che venga a chiudere la porta, così la notte e il vostro lampione potrebbero durare per sempre. Ma chi? Chi se non lei? Non c’è colpa, sei una lamina d’oro, se ti toccano, ti rompi. Invece lei, lei è nata mercurio, se la toccano, infetta. Tu l’hai toccata, forse per caso o forse no, tanto che ora ti giri per sentire il suo odore e non riesci ad andare avanti senza essere schiacciato dai desideri. E non ci credi che avresti potuto sentire questo per lei e lei non senti nulla. Maledici chi ti diceva che i desideri aiutano a rimanere in piedi, spine dorsali, che arrivano sul più brutto a salvarti, paladini; a te non funziona così, anche i desideri stanno scappando, sono codardi, hanno paura; come lei, lei che aveva paura di scegliere per sempre. Del resto è ciò che accomuna il mondo: siamo incerti perché sappiamo che la scelta definitiva si mangia tutte le altre, fatichiamo ad accettare che la vita è una sola, non molte. Esistono più desideri di quanti può contenerne una vita, ma allora perché la felicità non la troviamo sugli scaffali? Perché non è come un libro bizzarro o dimenticato, quello che sembra proprio destinato a noi, da poter sfilare tra un mucchio di volumi accatastati? Perché la felicità d’ognuno non è racchiusa nell’enciclopedie? Lì di solito ci sta tutto. No. La felicità si fa rincorrere, come un bersaglio che si sposta ogni giorno più in là. Tu hai ceduto, ti manca il fiato per inseguire, hai gettato arco e frecce perché stanco di mirare a lei. Sbagli. Ti stai lasciando andare, non c’è motivo. Se fossi in te andrei a riprendere le armi, magari non per mirare un’altra volta a lei, ma molto, molto più in alto.


Te la dedico un pò, perchè ti voglio bene, e sono qui a spegnere quel lampione. Che tu trova la tua nuova storia vera, nessun rimpianto.