15.9.11

Buchi neri

Non mi mancava nulla. Avevo vent'anni e mi sentivo parte della cerchia favorita da Dio, perché, il più dei giorni, stavo come Lui. L’unica a cui dovevo veramente qualcosa era mia madre, per il resto, non conoscevo rammarichi, né sensi di colpa. Avevo una testa che, a differenza delle bocche di paese, mi piaceva usare; avevo amici che, conficcati nel cuore come spilli, bastavano per cucirmi le giornate: il mio amore era quello, era per loro, intatto e completo, non avrei minimamente potuto mettermi con qualcuno. Che gusto ci sarebbe stato a spartire la mia personale avventura? Essere in due contro tutti e non riuscirci da sola? Non ci vedevo vantaggi nel complicarmi la vita. Scegliere una persona da tenere vicino sarebbe stato come tagliarsi le gambe in partenza. E io non volevo. Io dovevo ancora raggiungere l’altra parte del mondo, capire di che materia fosse fatto, saltandoci sopra e rovistandoci un po‘, scoprire che debolezze e vulnerabilità non sono le vere attrazioni, ma che in realtà, dietro al tendone da circo, c’è molto di meglio di qualunque copione ben recitato, recitato perfettamente, con le lacrime agli occhi. Ero stanca di vittime e lamenti. Io ero per il felicismo, il presentismo, l’attivismo, l’acrobatismo, il survivalismo, il cosmopolitismo, perché non accettavo compromessi o poltronerie, perché esigevo determinazione, fantasia, coraggio, correndo il rischio, un rischio responsabile, capace di farmi volare alto senza cadere mai. Ero totalmente in preda ad applicare le formule della giovinezza, volevo provarle tutte e per intero. Poi, forse, sul finale, avrei potuto fermarmi. Farci un pensierino. Forse. Ma a vent'anni no, a vent'anni si sta bene da soli.

Così avevo imparato a gestire le relazioni. Le studiavo, le amavo, amavo i loro concatenamenti, gli avviluppi delle esistenze altrui. Amavo curiosarci dentro per scovarci i buchi neri: riempire quelli degli amici e dilatare quelli di coloro da cui sarei subito fuggita. Gli facevo male. Per me, l’amore, non era che una sfumatura, un’ombra, che come il buio fa paura. Per i molti che passavano sotto casa, a raccontarmi le loro storie, invece, sembrava essere pura sofferenza, malinconia, smania. Non fu difficile decidere a priori di mantenerne le distanze. Dicevo di stancarmi in fretta, e un pò era vero, mi vietavo le seconde possibilità, le vietavo agli altri, preferivo concedermi ai sentimenti degli amici, agli interlocutori bisognosi di conforto: ascoltavo con attenzione, non mi distraevo, coglievo il loro tono di voce cambiare, cercando di strappare sorrisi con le mie ultime parole. Amavo, insomma, per riflesso. E fuggivo, sempre.
Appena mi accorgevo di star lasciando un segno nelle loro vite, tagliavo la corda, nessun preavviso. Agivo di sorpresa, volontariamente, per fare ancora più male. Come se dovessi rivendicare un dolore mai avuto e come se, la libertà, si raggiungesse davvero fuggendo.
Avevo soprattutto imparato ad aprire impercettibilmente le gambe: lo facevo per ottenere tutto ciò che mi pareva. Ero divenuta un’esperta nella parte di confidente, alleata, amante, perché particolarmente abile nel distillare i rapporti. Mi piaceva pensare di essere come i disegni sulla sabbia o sul ghiaccio: durano poche settimane o qualche minuto, poi la marea li inghiottirà. Andarsene insieme alle onde, per me, non poteva che essere un sollievo. Quel che di mio rimaneva tra i loro denti, sarebbe stato digerito, le mie esili tracce sarebbero a poco a poco scomparse. Facevo del male, ma insegnavo che tutte le cose belle sono storte, inclinate, inclini a scivolare via.

Ieri era una di quelle albe estive che nel momento in cui ti illuminano, ti distruggono. Mi sono svegliata presto. Nello specchio non c’era più la ragazza dei vent’anni. C’era una donna, aveva la faccia piena di rughe, le narici aperte. Aveva due buchi neri al posto degli occhi, ma era fuggita prima che io potessi riempirli. Mi ero fatta del male.