25.12.10

Ognuno

Non c’è più religione. I confini, i pensieri, le dogane, i pregiudizi, le accuse, gli sberleffi, i sorrisi a metà, non valgono più. Vali tu. Non m’importa degli altri, di quello che sono rispetto a ciò che sono io, se sono lontani, se non seguiamo le stesse vie; le differenze sono tesori nascosti, tenere posizioni contrarie ma ugualmente amiche è solo segno di talento. Davanti a chi è diverso, spesso prevale la voglia di chiudere la porta, beh, a me la porta capita di chiuderla, ma non sarà mai a chiave. Perché ognuno è libero, ognuno afferra ciò che vuole afferrare, prende la direzione che preferisce, dritta o storta che sia, in base alle sua prospettiva e in linea alla sua velocità, nel suo rischio e nel suo pericolo. Ognuno conosce dove vuole arrivare, meno dove può arrivare, ma sono certa che questo lo imparerà da sé, col tempo e l‘esperienza che tutto solo è andato ad agguantare. Sì, magari c’è chi è meno coscienzioso e quel pericolo lo vive tutto per intero, incosapevolmente ci rimette la faccia o persino le penne, ma non m’interessa, adesso no; perchè sarebbe come crearmi altri schemi di problemi, vorrebbe dire continuare a fare le somme ogni volta che supero un traguardo, chiedermi cosa sbaglio tutte le volte che spengo la luce. Adesso, quel che semplicemente esigo, è smetterla di pensare troppo, per pensare meno ma più velocemente.
Ognuno ha il diritto di percorrere mille miglia allo stesso modo in cui può scegliere di rimanere qua, nel buco, a scavarsi la sua fossa con le sue mani, senza nemmeno mettere fuori la testa dal muretto o cercare lo spiraglio nella siepe per sbirciare un po’. Non so nemmeno dirti quand’è stata la prima volta che mi arrampicai in cima, curiosa di poter credere che non finisse qui, che ci fosse dell’altro, che in piedi sul muretto potessi avere adrenalina e vertigini. E se le vertigini sono paura di cadere, allora fatelo, fatemi cadere, ci sarà un tappeto o qualche nuvola a riportarmi in cielo.

I nostri vent'anni non ce li toglierà nessuno, ma nessuno mai ce li ridarà indietro.

25.11.10

Ma ho smesso di chiedermi

Lui ogni mercoledì mi ripete che viviamo in un mondo di pixel. Dice che ci muoviamo all’interno di un reticolato digitale come quadratini optical con gambe, sottili fibre pulsanti, dalle doppie facce e dal cuore intermittente. On - off. Ci siamo fatti bravi ad aggiustare arterie come se fossero carburatori, in una questione di fili rossi, tasti più spinti, sezioni rese combacianti a far funzionare l’intero circuito. Ma ho smesso di chiedermi chi ci sia a far partire la corrente, chi siano generatore e scheda madre. Oggi si può tecnologizzare e trapiantare qualsiasi cosa. C’è perfino chi il cuore lo codifica, lo congela e lo presta lasciandolo battere nel petto di un altro: come se in questa vita ibridata non morisse nessuno.
Lui ogni mercoledì ribadisce che siamo parcellizzati, frammentati. Non sentiremo più parlare di persone tutte d’un pezzo, perché saremo in continua composizione; ce ne vivremo per sempre tessendo ragnatele di complicazioni organiche essendo ragnatele noi stessi. Ma ho smesso di chiedermi chi siano gli aracnidi, le mosche, i moscerini.
Questo ultimo mercoledì lui ha aggiunto che arriveremo a nascere con il telefonino incorporato nel polso: se i numeri ci basterà pensarli con un battito di ciglia, per le telefonate ci basterà accendere le lampadine. Non sentiremo più parlare di persone che parlano da sole, perché le nostre bocche saranno un po’ auricolari, un po’ ricevitori. Forse non è una visione così lontana, forse un po’ di ragione lui ce l’ha, qui è da parecchio che abbiamo solo iPod, iPad, iPhone. Ma ho smesso di chiedermi iCosa diventeremo.

Io che non son niente rispetto a lui, che di cosmo ho conosciuto ben poco, se non la mera etimologia, mi spavento nel definirmi una tra tante figure sfuocate. Mi spaventa non poterci vedere chiaro, ammettere che nel caos le sgranature non possono essere messe a fuoco. Allora se veramente siamo pixel, e lo siamo, non tocca che arrendermi. Però perché proprio pixel? Io preferisco ancora i granelli di sabbia, i chicchi di mais, i semi di riso e le briciole del Mulino Bianco. Perché non possiamo essere puzzles e poi magari anche pixel? Io dico che siamo puzzles. Il mio con pazienza sta provando a costruire un’immagine: certo, per ora non ho unito molti pezzi, ne ho messi insieme diciannove, ma non sono nemmeno a metà dell’opera. L’ultimo tassello l’ho aggiunto giorni fa, quando sono scesa da un treno e la prima cosa che mi è stata regalata era una lente d’ingrandimento. Non c’era più nulla a misura d’uomo, lo spazio era quadruplicato e, come è solito succedere, in quello spazio così grande sono rimpicciolita a microbo. Poi t’abitui, semplice, t'abitui non appena capisci che da microbo puoi vedere gli altri senza che gli altri ti vedano. Così sono stata attenta a non farmi calpestare: piccolo neutrone in cerca di una carica. Beh, quella carica è arrivata, per fortuna positiva. Il microbo ha inglobato altri microbi, gli sono piaciuti e ne vorrebbe ancora. Li vorrebbe per evolvere a cellula. Perché quando stai in uno spazio quadruplicato fai presto a voler crescere più veloce anche tu. Sarà per questo che nella M. metropoli ci si sente un po’ tutti più grandiosi. Ma guai sentirsi grande prima del tempo. Affrettare non è altro che inserire la tessera sbagliata nel puzzle, incastrarla per forza seppur non combaci. Chissà tra qualche anno a che punto sarò: voglio completare il puzzle senza aver perso alcun pezzo per strada.


Grazie a F. e a D.

22.11.10

Perchè sì/è un casino.

Quando si lascia qualcosa d’importante, tutti tendiamo a tornare indietro. La difficoltà sta nel capire se quel qualcosa fosse/era/è/sia ancora importante. Penso ne valga comunque la pena, davvero, sbattere la testa a volte conviene; ti scuoti un po’, provi: se il muro è duro male, se il muro crolla bene. Certo ci sono più fattori. Dipende anche dalla conformazione della tua testa. Da quanto è piena, se è resistente oppure marcia. Perché sì, spesso sui pensieri fissi al passato uno ci marcia sopra, è noto, si va avanti con lo sguardo voltato. Succede nel momento in cui i tempi del processo di analisi e autoanalisi vanno per le lunghe, entrando in automatico nella fase di putrefazione/afflizione/autodemolizione e salutando definitivamente la tua dignità dopo aver già tentato di mandarla a benedire. Ma si sa che il gioco più bello è quello più corto: pertanto, quando sogni all’infinito cose passate che mai più ci saranno, finisci che non sai nemmeno che cosa stai sognando, sogni e basta, confondi piccole capanne per luminosi castelli, non sai più chi sei/non vuoi più essere così/vivi la vita di un altro. Perché sì, commetti cose che se fossi ancora tu - il tu sano, non marcio - non t’appartengono, se fossi ancora tu a guardarti da fuori, non ti riconosceresti. Non sei tu, il processo di autoanalisi non può più continuare. Marcisci.
È un casino.

Anche perché per la rinascita, se mai avverrà, ci vorrà il doppio di fatica e di tempo. Quindi è vantaggioso tagliare i tempi fin da prima. I tempi di autoanalisi, sempre quelli intendo. Se capisci appena riesci il tuo errore, non occorre stare lì a rincitrullirti e cercare domande abbinando risposte per supplire scusanti. Aspettando chi/come/quanto? Fai retromarcia prima che qualcuno di troppo se ne accorga. Fai retromarcia, attento al muro alle spalle - finché non ci sbatti non sai se crollerà veramente - poi tieni la testa dritta come la tua strada e impiega poche manovre, perché sì, le cose troppo complicate non fanno che complicare ciò che hai reso, tu da solo, col tuo errore, già abbastanza complicato; fanne poche, almeno non sbagli nuovamente nell’andare avanti e indietro a vuoto. Pum, muro crollato. Fai salire quel qualcosa d’importante che avevi lasciato, se t’accorgi che non era tale hai più di un finestrino, più di una portiera. Diciamocelo, non sarà meglio una capanna reale che un castello sognato? È intima il giusto per farci entrare chi vuoi.

5.10.10

Dedicato

Arrivi ad un certo punto in cui ti rendi conto di avere tutto quello che vuoi. Qualsiasi cosa. Poi ti accorgi che l'unica cosa che davvero vuoi, ti manca. L'hai sempre voluta per finta, ma non l'hai mai avuta davvero. L'hai forse sognata, una volta, anni prima, quando eri ancora uno strisciante uomo in erba; non potevi capire dove stava il perno, la molla, il motore, il principio, del resto era presto. Ad ogni modo, poco dopo, per vie traverse - perché le cose troppo pulite ti viene subito voglia di sporcarle - perché il letto appena fatto ti viene subito voglia di disfarlo - hai infilato nella manica un asso e tanti due di picche da distribuire come biglietti da visita, quasi gentile nell’avvertire. È successo da sé, ti sei svegliato una mattina e hai cominciato a scegliere per te stesso, mica per gli altri. C’è chi te l’ha lasciato fare, li ringrazi e li ami. Nessun complesso di banalità nel ripeterti che l’esperienza conta, e infatti conta, ma a differenza dei luoghi comuni, aggiungi che, se a mancare è il tessuto migliore, nonché la materia grezza di nascita, è un attimo e la trama si smaglia: non si rifa, è già da buttare. Ti diverti a giudicare coloro che ne fanno uso quotidiano, avendola applicata sulla propria figura, marionette vestite da carnevale; ne hai trovate parecchie in giro, in greggi, come dei fuori moda senza tempo. Sai, con un vestito dalla trama scadente, con un tessuto mal lavorato, si può essere solo una caricatura, che perde e perde sempre.
Arrivi ad un certo punto in cui ti rendi conto di avere tutto quello che vuoi, qualsiasi cosa; che tu, il tuo tessuto natale l’hai ispessito come si deve, che non vuol dire corazza, ma semplicemente che era buono di base, ideale nel ricamarci sopra il disegno provvidenziale più raffinato. Lo segui col dito, questo schizzo, lo ricalchi. Ci sono gli intoppi e i nodi di capitan Findus da sciogliere. Oggi hai inciampato in uno talmente grosso, che non ti sono bastati i soliti dieci minuti di vivisezione. Ci è voluto più tempo, ma chi se ne frega. Scaltro, non ti sei fatto incantare dalle apparenze. Libero, non ti sei fatto rinchiudere in recinto. Forte, continui a costruire la tua supremazia incrostata. Tu metti a fuoco con precisione, sfidi ed esigi intensità. Non temi di sprofondare negli abissi, perché credo che sia proprio da lì che provieni. Mi piaci quanto non mi piacciono i deboli. Sei ciò che mi mancava.

30.9.10

Siete il mio souvenir.

Ancora una volta, in fila indiana. Incastonate al loro posto, le vostre facce come in album da collezione: siete le mie figurine, le più rare. Le trovano in pochi, e io vi ho trovato, non vi baratterei con nient’altro al mondo. Siete la mia fortuna, siete ciò che sarò io domani, mi potrò specchiare in voi ogni giorno perché in voi saprò cercarmi ed esserci di nuovo. “Io ci sono anche quando non ci sono” ve lo ripeto da mesi, me lo ripeto io stessa, le sere in cui la nostalgia arriva più forte a bagnarmi il cuscino. Spazzate via ogni altra cosa.
Siete il mio souvenir, di tutti i colori, di quella vacanza durata una vita. Lo tengo in tasca e lo faccio tintinnare: voglio ascoltarlo mentre cammino. Siete il ritmo dei miei passi. Allora portatemi lontano per tutti quegli anni che verranno e riverranno. Se mi fermerò, sono sicura che rimarrete lì ad aspettarmi. Ancora una volta, in fila indiana.

18.9.10

Bianco

Quando inizi a vedere tutto bianco è perché i colori se ne sono andati tutti al loro posto, roteano prima che qualcuno abbia girato la ruota. È chiarezza, limpidezza, franchezza, ciò che intorno si può avere solo se su quell’arcobaleno hai trascorso giorni a correrci sopra, la tua palestra, il sudore come la tua pioggia. Hai trovato il tetto, ti sei protetto e hai proseguito, così ora vedi e pensi bianco, pulito, perché non sei rimasto immobile, seduto lì ad aspettare la spinta per lasciarti scivolare via.
Non hai perso le sfumature - ci sono ancora, ci saranno sempre - ti s’incollano alla faccia e le mandi giù per ogni boccata d’aria che ti vai a riprendere. Sei felice nel momento in cui sei felice, nient’altro. Hai perso i contorni, quelli sì, sei uscito dai bordi senza la paura di sbavare, non hai più esitato davanti ai paletti, hai semplicemente lanciato il tuo cuore al di là dell’ostacolo. Sei felice di te. Lo si nota da subito, appena ti guardi da vicino e ti squarci l’involucro per curiosarti dentro. La tua pelle ha smesso di essere un luogo ambiguo, non fa più da limite con l’aria, non appartiene né a te né all’esterno, ma a entrambi. Dell’aria hai preso lo stesso profumo, la stessa essenza che resta e che ti è entrata fino in fondo. Le tue viscere sono diventate come il concentrato nei contenitori di latta, il sorso denso del succo. E sanno di tramonto d’estate, di settembre, il mese solitario e un po’ frainteso, dove ci sono una fine e un inizio. Dove ci sono specchi, confessioni e confronti. I suoi giorni ti fanno tornare indietro di anni perché sono a strapiombo sul futuro.
Più o meno nudo, ti trattieni più a lungo a guardare la spiaggia come qualsiasi altra vecchia strada percorsa, i finestrini abbassati a scambiarti parole con il maestrale. Poi arriva l’ora dei saluti. Basta un attimo e non ti accorgi di esporre più di quanto conosci di te. C'è il bianco, la luce filtra attraverso fino a farti lacrimare. Divieni un umano fatto ad arte, un’arte fuori cornice, chiusa in quella cartolina che non ti va di spedire, ma che tieni per te perché non vorrà mai essere dimenticata.
In questo nono ed estremo mese hai ancora la voglia di essere qualcuno che crede in qualcosa. Ti chiedi se quello che per te conta è quello che hai o quello che non si può avere proprio perché hai quello che hai. Ti fai i propositi, ponti sospesi, tronchi sui ruscelli, amache bianche tra gli alberi. Ma sai benissimo che potresti accontentarti solamente di una cosa: una casa da cui poter vedere un albero per capire quando arriverà di nuovo l'estate. Ed essere felice nel momento in cui sei felice, nient’altro.

3.9.10

I grandi orizzonti

Il ricordo di lei sembra vivere fuori dal mio tempo, come se esistesse un aldilà già avvenuto, un aldilà di ieri, dove i contorni a matita di ciò che di quella figura è rimasto, tremano deboli sotto al mio dito, e non c’è più nitidezza.

Era poco più di un anno fa quando l’avevo salutata l‘ultima volta, mi parlava con gli occhi, timida, pretendendo bastassero quelli per capirla. Bastavano.
Con lei avevo condiviso ogni momento, così tranquilla e riservata, mi aveva insegnato che anche il silenzio è di buona compagnia: non ti disturba se non hai voglia di parlare. Era materna, pulita, bianca, quasi bianca come le sue bugie, una delle persone più belle che avessi mai incontrato; lo si capiva da chi le stava intorno, belle persone anche loro. Del resto non era difficile volerle bene, all’inizio, il suo broncio e i sorrisi un po’ tirati, la rendevano antipatica, altezzosa, ma poi, quando ti salutava - sempre - e ti sedeva accanto, veniva naturale parlarle di te, delle tue cose, del tuo domani.
Mi comprendeva come nessun’altra, anche se mi abbracciava poco e sembrava non le piacessero i sentimentalismi. È stata lei a consigliarmi di partire, che qui non potevo aspettarmi molto di più di ciò che già avevo; che, se dopo aver bussato alla porta accanto, il vicino non era stato gentile e mi aveva presto dimenticata, non c’era motivo di rimanere oltre.
Parlava che il suo più grande desiderio sarebbe stato sparire, anche solo per un po’, perché sosteneva che se fosse sparita, la sua assenza avrebbe reso ancor più grande il suo ritorno, più piacevole la sua presenza. Io, d’al canto mio, con il timore di perderla, di non riconoscerla più una volta tornata, le ripetevo che sparire è tuttavia pericoloso; certo, ti apre le porte dell’immaginario, ma di porte ce ne sono solamente due, non si sbaglia, da una esci, dall’altra entri. Finché un giorno quella per entrare non si apre più. E la magia svanisce.

Se n’era andata in un giorno di sole, di mattina presto, goffa sotto il peso delle piccole e prime paure, stanca e imbarazzata in un mondo da interpretare. Era diretta verso i grandi orizzonti, voleva andarli a toccare con mano, immergersi e rubarne la forza di reinventarsi; curiosa di vedere in un anno quanta gente potesse passare per la sua porta, aprire e restare. Negli ultimi tempi si era convinta che di posto, dentro, non ce ne fosse più per nessuno, che per lasciare liberi spazi avrebbe dovuto toglierne ad altri, ai primi, quelli che proprio non se lo sarebbero mai meritato. Credeva di possedere un cuore già saturo abbastanza, invece aveva semplicemente messo le transenne, chiuso le sbarre. Teneva tra le mani i sogni e una borsetta, in spalla lo zaino a ricordarsi chi fosse, pieno di cose e di persone. L’aveva riempito a più non posso fino a non farlo respirare, cercando di ficcarci tutto per non dimenticarsi di nulla. Se n'era andata.

Voci mi hanno detto stia bene, benissimo, che sia riuscita ad intrecciare due storie in una, a misurare dove finisca il nuovo e dove inizi il vecchio. Mi hanno detto che vive a mezz’aria, a metà, tenendo appena i piedi sollevati da terra, perché le viene più facile frenare, scendere a contare i suoi tesori, a vedere se ci sono ancora, per ritrovarli interi e senza graffi, lì in fila a farle da luce sulla via di casa, fari. I suoi tesori sembrano non aver smesso di brillare e continuano a farla brillare di luce riflessa. Finché li terrà in lei, nessuno potrà mai rubarli, sono al sicuro.
Ai tesori lontani se ne sono aggiunti d’inattesi. La normalità si è trasformata in sorpresa, non se l’aspettava proprio. Li aveva trovati per caso sui gradini di una scala, affannati, e con il suo stesso bisogno: un appoggio per proseguire. Con loro è arrivata in cima, tra le correnti, dove la vista ti toglie il fiato e dove tutt’un tratto ogni cosa sembra avere il proprio nome. Dove i dettagli che preferisci, in tutto quel paesaggio, sono le cose più semplici, i fuori programma, le messe a fuoco.

E fu proprio da lassù che li scorse, finalmente più vicini, i grandi orizzonti.

30.7.10

C'è chi usa la falce e nemmeno se ne accorge.

Ti fai in quattro per coltivare un pezzo di terreno per ognuno, uno stracazzo di pezzo di terreno. Ci metti i tulipani e i girasoli grandi, li innaffi la mattina, li sistemi la sera. Ci sono i vasi, i gattini, le coccinelle. Ogni pezzo di terreno è diverso a seconda di chi decido debba starci, i più rigogliosi hanno il loro perché. Ma sarà che il giardinaggio non mi viene bene, sarà che voi non apprezzate un benché minimo profumo di primavera e percepite solo l‘odore del concime, sarà che devo smetterla; che ci sono i giardinieri apposta per delegare un lavoro a cui posso finirla di dedicare invano tempo e cuore. Perché io cerco di regalarvi pezzi di terreno perfetti, unici, senza spine né api, mi preoccupo di renderli fertili per farci crescere qualcosa di speciale, e voi? Voi, le mie aiuole, me le calpestate tutte e ci fate sopra la pipì . Ah, valle a capire le persone. Valle a capire perché cambiano idea assieme al vento, perché usano la falce in modo netto, perchè preferiscono che attorno a me ci siano fulmini e saette a scorticare i miei orticelli. Preferiscono la pioggia, quella acida e che corrode ogni cosa, quei temporali bui, che non conoscono il bianco della chiarezza e della lealtà, che fanno solo paura e scombussolano le mie neonate certezze. Non c’è tettoia che tenga, il mio lavoro di mesi viene distrutto, rami ovunque pronti a graffiare, boccioli che non vedranno mai il sole. Mi chiedo se varrà la pena ricominciare da capo, con dei nuovi giardini, o se mi farò bastare i miei, quelli di sempre, quelli dove ci correvo da piccola, dove se inciampavo era tanto per giocare, nessuno stava male e l'unica gara era quella delle altalene, ci potevi raggiungere il paradiso.

3.7.10

Seduti lì

Negli occhi azzurri tira spesso un’aria gelida. Io ho sempre preferito i tuoi, sono caffè. Non m’importa di vederci il cielo, il mare, loro sono caffè, denso, buono, più buono se bruciacchiato. Perché i tuoi occhi hanno l’aroma di casa, e io a casa bevo ancora dalla moca consumata. I tuoi occhi sono caffè, ma sono anche nocciola; sono caffè, nocciola, cioccolata, cacao, pane tostato, mandorla e castagna: ci sono le spezie. Allora chissà le tue lacrime che sapore avranno.

Io spesso lo so, sono fortunata, so da dove vengono, so dove vanno, lo so perché ce ne stiamo insieme a farle seccare, accarezzati dal sole basso della sera, ninnati da quella nostra culla solo nostra. Stiamo bene io e te. Seduti lì, ad ascoltarci i dubbi, a fare a gara sui pensieri da dire, lasciando il tempo fuggire altrove. Ah, se quella panchina potesse parlare, invece, se ne sta silenziosa, paziente, ti aspetta con me quando fai tardi, aspetta con te i miei ritorni. Lei c’è sempre. E se davvero ci sono cose nella vita che non cambieranno mai, io voglio che questa sia una di quelle; che sulla stessa panchina, anche il giorno nato in bianco nero continui ad accendersi di vero. Perché io e te non abbiamo bugie, o per lo meno, ne abbiamo poche, pochissime, di quelle senza gambe, che se le guardi da dietro e gli tiri la coda, si confessano da sole, prima ancora di iniziare le parole.

Mi piace pensare di conoscerti a memoria, come se fossi in grado di recitare il finale delle poesie che tieni in testa. Sei prevedibile, ma solo per me. Non scontato, ma prevedibile, è una bella cosa, rara, e me ne vanto. Mi vanto di padroneggiare tutte le tue vie di fuga; del resto, una tua evasione, rimango proprio io. Sono il tuo fuori campo, dove i sogni se ne possono andare veloci, in quinta, liberi a rincorrere i miei. Non ci sono freni, paure, né strade diritte, il tuo fuori campo è così profondo, illimitato, che quando ci sei dentro - tu che più di altri sai come entrarci - la possibilità più grande che hai è quella di poter sbagliare all’infinito. Sbaglia, che ci sono io qui a correggerti.

Sei piccolo, sei immaturo, sei testardo. Non sei come me, non siamo uguali, nemmeno opposti. Non vale nessuna legge, quella è fisica. Sei immaturo e non dire di no, che è una balla, perché lo sei. Ma è proprio il tuo esserlo che mi fa salire il bisogno di tenerti stretto, in pugno o in tasca, di tirarti fuori quando mi va, di alzare l’ala destra perché è meglio così, è meglio se ti proteggo, perché negli anni ho capito che, se inciampi, fai poi presto a scivolarmi giù nel burrone. E il burrone, lo sappiamo, non è come me, non è fatto di burro.
Invece io, che di burro ho quasi tutto, posso spalmarmi sul pane tostato dei tuoi occhi. Ho l’ala destra per farti volare, ho la borsa per tenerti il portafoglio e le chiavi, e ho anche i capelli che non s’addormentano se, a mancare, è la buonanotte delle tue sigarette. Ho tutto questo, sì, ce l’ho, ma sono comunque fatta di burro. Mi sciolgo più facilmente; nel giorno dei saluti, l'ultimo, mi squalglio. Non puoi capire quanto sei maledettamente bello mentre ti guardo andare via.

22.6.10

Camicie

Alcuni nascono col dono di saper distinguere, di sapere ciò che ti può far stare bene veramente. Altri, invece, fanno più fatica, amano portare camice aderenti, e così, lì, tra i bottoni, è ovvio che tutto risalta, anche il cuore.
Ma quegli alcuni, i primi, le camicie le portano sfiancate, leggere, perché per loro l’amore è proprio come una camicia stropicciata, ti abbraccia comunque e non invade; non gli importa quello che si prende o che lascerà, vivono d’approssimazioni, al fine di svincolare da quelle complicazioni che, a parer loro, rimarranno altre e degli altri. Gli alcuni sono abili nella scissione, che non vuol dire per forza stare divisi a metà, anzi, loro si sentono vincenti, tutti d‘un pezzo; filtrano col colino in mano, fanno scivolare l’acqua distillata che gli altri berrebbero come pura sorgente, mentre tengono per sé le tossine, le cose più sporche, aprendosi i bottoni della camicia per farci passare l’aria: è fresca come quella che si respira in cima al mondo.
Gli altri, i secondi, sudano già nel trovarla, la camicia più adatta, del colore che dona, ma una volta comprata in boutique, sudano ancora; la conservano con cura, talmente pulita da sembrare intoccabile, e a volte ci ricamano sopra le proprie iniziali, è la manifestazione di un possesso, e sudano. Invece, gli alcuni, si accontentano di cercare nella bancarella dell’usato - che non ha niente da invidiare alla boutique - dove tutto è pronto all’uso, dove se una cosa non va, la si può sempre gettare; ci sono meno sensi di colpa e più curiosità, più gusto, perché chissà da dove arriva quella camicetta, chissà chi l’ha messa, chi l’ha provata, chi ci ha sudato, chissà che sapore ha.
Fino a qui, fin quando gli alcuni e gli altri non s’incontrano, l’economia delle camicie gira senza intoppi. Poi capiterà che gli alcuni un giorno si sveglieranno con una camicia indosso che non è la loro, bensì quella degli altri, non si riconosceranno, i ruoli s’invertiranno come una camicia infilata alla rovescia, di fretta, nel risveglio. Del resto si sa che starsene in cima al mondo aumenta il rischio di una bella caduta.

19.6.10

Insofferenza

Non è che sto male o bene o benino, è proprio che non so come stare. Ovunque mi metti, io non sto. Non è questione di essere in bilico, né di stanchezza o stasi, d’indecisione o precarietà, sarebbero tutte situazioni ben definibili, mentre adesso una situazione definibile non ce l’ho, ma se domani mattina arrivasse - perché posso pure aspettare fino a domani mattina, basta che non sia invano - mi darebbe sollievo. E se arriva assieme a una granita all’anice ancora meglio. Invece io, che ovunque mi metti non sto, non mi trovo in nessuna situazione. Voi direte: dai, è normale, capita il momento di “vuoto”. Di vuoto? Sarà perché a volte credo che mi manchi l’aria, attorno, credo di essere sotto vuoto, appunto; ma poi mi tocco il respiro ed è tutto regolare, come la crescita dei peli nelle gambe. Allora cos’è? Vuoto interiore? Figurati, sono così piena d’insofferenza che anche nel silenzio ne sento il rumore.
Ecco, forse ci sono, è un problema di luce, di obbiettivo e messa a fuoco, devo smetterla di guardare i dettagli anziché i grandi fasci. E' sempre stato un mio difetto, non ci riesco e non ci riuscirò mai a tralasciare o a sorvolare, a incrociare persone senza vederle. È un problema sì di luce, ma anche di luci, plurale, perché una luce in più non sarebbe mica una cattiva idea; non chiedo grandi cose, non pretendo stelle cadenti, ma solo un bagliore in più, più forte. Non per illuminare, non saprei nemmeno chi/cosa/quando/dove/perché illuminare, ma solo una lucina in più, magari da seguire, da non spegnere mai, neppure la sera, sul comodino. E se invece la mia lucciola ce l’avessi già? Potrebbe essere lontana, io non la vedrei. Potrebbe essere vicina, mi accecherebbe, non la vedrei comunque. Chissà com’è, se è una luce solida o se è sostanza liquida, come l’amore, che subisce i cambiamenti di stato. Che cosa complessa. Se fosse solida di sicuro non mi scapperebbe di mano, quindi sono quasi certa si tratti di materia liquida, la mia lucciola, perché se per caso mi era sembrato di averla afferrata tra le mani, è scivolata via: un olio di candela. Una luce a intermittenza insomma, che va e viene, che non sai neppure quando arriverà, come le nuove estati, che vanno di moda se si fanno aspettare. Uffa, io voglio la mia luce al neon, che con il neon non soffrirebbe di vuoto interiore. Le vendono? Una luce al neon non avrebbe nessuna pretesa, se ne starebbe bene tra le mie mani, senza scivolare via, senza cambiamenti di stato, perché io l’alimenterei “per sempre“, che è sinonimo di “ogni giorno“. La luce al neon, come me e assieme a me, non tralascerebbe, incrocerebbe le persone, non per guardarle, ma per vederle. Voglio una luce al neon, sì, la voglio perfino tossica, così avrei anch’io la mia dipendenza su cui poter sfogare la mia insofferenza, diversa dalle sigarette e senza tette. Esattamente io voglio un tubo al neon, capiamoci. I tubi dove li metti, stanno, li incastri in situazioni definibili e anch’io con un tubo potrei entrare finalmente e una volta per tutte in una posizione, ops situazione, definibile.

9.6.10

Il Courier New si crede suo erede, illuso.

Ho vent’anni e di macchine da scrivere vere ne ho toccate ben poche, se non una. Ci incastravo i fogli e mi sporcavo le mani, o forse erano le mani che finivano a incastrarsi lì dentro. Già, allora l’inchiostro del rullo vantava ancora il suo primato, per me è venuto prima dell’odore della benzina fresca, del muro fresco, della candeggina e di Flower By Kenzo, per me c’era solo l’inchiostro del rullo. Era nero più dell’unto di una bicicletta, magari meno della pece (e chi lo sapeva?), però assomigliava a quello del polipo che papà puliva il venerdì in cucina, nel lavello: cosa se ne faceva un polipo dell’inchiostro, se non sapeva scrivere?
L’inchiostro della macchina da scrivere di casa, grigia e a ditate nere, giocava coi capricci e le fantasie di una bambina. Il suo aroma buono inondava il mobile delle foto, quello sotto, dalle ante storte e i pomelli allentati - sembrava di stare in ufficio da mamma. Lei sì che lavorava con una macchina da scrivere bella, era lunga come la scrivania e poi era elettrica. Eppure la mamma, che scriveva con tutte le dita, guardando il foglio e mai a dove stava battendo - perché nella sua scuola aveva imparato così - non tornava a casa con le mani sporche d’inchiostro. Non sapeva cosa si stava perdendo.
Spingevo le lettere nell’ordine del mio alfabeto, le parole avevano tutte il loro senso, senz’altro il più giusto. Scrivevo come nella sigla della Fletcher, lei sì che era una donna giusta. Lei ora probabilmente saprebbe dirmi dov’è sparita la mia macchina. Non ce l'avranno mica la cara Susi e il caro Paul?

7.6.10

SI (con l'accento)

Avevo la schiena spezzata, proprio io che della fatica conosco solo il nome. Il sudore vero non so davvero cosa sia e credo che mai potrò saperlo veramente: non son solita a rimboccarmi le maniche, non tengo pesi tra le braccia né mattoni in bilico sul capo; allora saranno stati i sassi ad avermela spezzata, quelli che si tengono sulla coscienza, nello stomaco, proprio io che di sasso gioco ad avere solo il cuore. Invece piegata in due me ne stavo, come se non potessi più vedere il cielo. Poi ho capito: era un inchino. Un inchino dovuto e che devo a chi continua a permettere il mio volo, un inchino che non viene da sé, quasi forzato alla mia debolezza nel ringraziare. Ed è tutto per voi, che avete permesso di farmi sentire di nuovo leggera; oggi ho potuto volare da ferma e indicare col dito il centro dell‘universo, forse era proprio lì, nascosto sotto la sabbia o dietro alle nuvole. Forse era proprio lì: accanto a me.

I giorni no non piacciono a nessuno, eppure ci sono. È come pensare a quella vecchia storia: racconta che senza il Male il Bene non potrebbe esistere, lo stesso vale per i giorni, i sì non esisterebbero senza i no, né l’oggi senza l’ieri. Sembra la legge dei contrari, vecchia storia.
Oggi è un giorno sì, un sì netto, sicuro, che s'accenta dei vostri sorrisi. Oggi sa un bel po’ come quid sit futurm cras fuge quaerere, il presente da cui per una volta non hai voglia di scappare. Oggi è un giorno sì che ha tracciato le sue impronte più forte, più giù, in profondità, cosicché nessun mare potrà mai cancellarle.

28.5.10

Pazza.

Pazza, questo sono. Pazza. Ma non rientro nella categoria delle impazzite per amore, di quelle ce ne sono fin troppe. Non assomiglio neppure a quei pazzi che di notte rovistano nei pattumi alla ricerca di tesori, e che di giorno se ne stanno in piazza, tali e quali a monumenti senza piccioni: di quelli però ce ne sono sempre meno o talmente di più da sembrare di meno, dipende. Io sono pazza sì, ma che pazza sono? Di certo non sono la pazza del paese, dato che non ricordo di essermi mai tagliata la punta delle scarpe per impedire ai calli di farmi male, né di avere spezzato il silenzio della Chiesa sul più bello di un’omelia pasquale. Non sono una pazza del paese, anche perché i pazzi del paese sono delle vere istituzioni, come i preti o i panettieri o i medici condotti, ed ecco, per adesso, non penso ancora di essere un’istituzione.
Non tutti però lo capiscono, che sono pazza. C’è chi mi vede seria, integerrima, granitica nei principi, sempre in ordine, dentro e fuori; chi crede che io non tentenni mai, che non possa deviare o crollare. E invece non piego le mutande dentro i cassetti, brucio il caffè e non so phonarmi i capelli con la spazzola. Anch’io se cado per terra rotolo, anch’io mi faccio programmi e non li rispetto. Per di più sogno - quelle rare ore non insonni - di avere piedi ricurvi, inadatti alle scarpe piatte: è un problema? Poi quando rido mostro tutti i denti, sono pazza?

Grazie a D.

25.5.10

Buon compleanno.

Guarda che non mi sono dimenticata, il tuo compleanno non può volare via come tutti gli altri giorni, quelli che - ora più di prima - sembrano disperdersi ad ogni mio risveglio. Chissà dove vanno, forse in cielo, come il fumo di sigarette mal assaporate. Ma il tuo compleanno no, il tuo compleanno va respirato per bene e per intero, inalato fino all’ultimo tiro. E lo senti il sapore? Lo senti? È un retrogusto che non possiede un nessun ché d’amaro, se non fosse per quel brulichio d’amarezza incagliato alla gola: l’amarezza di non esserci, oggi, lì, assieme.
Mi rimane il filtro tra le mani e un po’ di te nel piattino del posacenere: fumerei ancora volentieri, ma il tuo compleanno è uno solo, così speciale che non lo vendono in pacchetti. Allora non posso che annusarmi le dita, le annuserò anche prima d’addormentarmi; poi non berrò nulla fino al mattino, perché quel brulichio d’amarezza incagliato alla gola me lo voglio tenere, fa solletico, e magari ci scappa un sorriso. Proprio come uno dei tuoi, i più belli.

BUON COMPLEANNO.

23.5.10

Divisa in due me ne sto.

E' stata una di quelle giornate lunghissime, quelle che non hanno nè capo nè coda, ma sanno di frenesia pura, sanno di fresco, di buono; una di quelle giornate in cui il vento di novità ti arriva in faccia a spettinarti i capelli: di colpo il respiro ti viene a mancare, ma poi, in quel vento, ci affogheresti volentieri, subito.


R. è così.
È riprendersi in mano la vita.
E’ respirare odore di città.
Non aria pura, ma Vera.
“Respirala tutta e stacci in apnea”

R. è un fiume di luci di Natale.
È il freddo che scorre nelle maniche
Come granelli di zucchero il mattino.
R. è aperitivi in stile africano
dove però - che brutto dirlo - non si muore di fame
R. è una buonanotte di cassate siciliane
R. è un buongiorno uccellini, natura, parco, bambini
È chiacchierate lunghe senza senso
Un filo del discorso perso
Nel disordine di camere vissute.

R. è una bicicletta.
Rossa.
Vecchia.
E’ l’ombra che pedala accanto a te.
Compagna di piazze sfollate.
La strada la sa, se rallento lei procede.
Se mi giro, lei si gira, mi guarda le spalle.
Prosegue sicura.
R. è biblioteca.
Tossire tra i silenzi.
Ripetere in silenzio.
R. è piscina.
Pelle che si abitua a un cloro sconosciuto
E non sai più la casa tua qual’è
R. è mare.
È pelle.
Rossa.
Calda.
È ginocchia sbucciate
Scorciatoie improvvisate
R. è stringere mani - ciao, Cecilia -
A facce che saranno nuove una sola volta
ma che rischieranno di perdere il loro nome
in un impasto di dialetti e risate.
R. è l’altra metà
C’era un cavaliere che è vissuto dimezzato
E la storia aveva un lieto fine, mi pare
Perché non potrebbe valere anche per me?

Ho imparato a prendere e lasciare
A far passare
Mandare giù (e non solo il fumo delle sigarette)
A pensare lontano
A non pensare
Perchè qui le persone non le scegli
Ti capitano
Le prendi così come sono
Come vengono
Ma la barca è la stessa e ti piace remare con loro
Verso la stessa direzione.

15.5.10

Un portachiavi

Non passerò più le notti a guardare questo soffitto, ad appiccicargli i sogni aspettando che qualcuno li raccolga.

Ci vuole pazienza - sembra ce ne voglia parecchia - ma io non ho ben chiara la tempistica, non conosco i tempi adatti alla maturazione; ci ho sempre capito poco con tutto ciò, con il seminare e il raccogliere, il dare e il ricevere, secondo me sempre di attesa si tratta. E l’attesa, lo sappiamo, mi fa schifo. Così, quello che credo di avere capito, è che la rassegnazione, l'abbattimento, vanno scalciati con la pazienza. Ci vuole pazienza, dell’altra, perché primo o poi il vento arriva per ognuno, passa sopra e se ne va. Assieme ai nostri sogni. Anche loro se ne andranno, li aiuteremo a scegliere se cadere o volare. Ma per prima cosa siamo noi, tocca a noi avere pazienza, non ai sogni, loro stanno lì, appesi a testa in giù e profumati di spezie, pronti.

Perché primo o poi il vento arriva per ognuno, passa sopra e se ne va. Si va nel verso giusto, che poi, forse, è proprio quello sbagliato, perché a volte occorre un passo falso per capire come si cammina, dove si camminerà; serve un inciampo, poi metti un piede dietro l’altro e non ci cadi più, hai preso il via. Sei il vento e il mondo ce l’hai in tasca, un portachiavi.

12.5.10

I gatti non sono delle volpi

I miei giocattoli stavano sparsi sul pavimento, stavano bene, c’erano le favole e nulla di liquido. Oggi no, i giocattoli se ne sono andati, e con loro qualche favola; oggi ci sono solo i miei pensieri nell’aria, sparsi sì, liquidi pure.

I miei pensieri sono i giocattoli del vento, variabili ad ogni folata di novità. Come se le novità portassero davvero disordine: le novità si sistemano con cura nelle crepe dei vecchi muri, quelli scrostati - allora portanti - e che ti piaceva scrostare ogni volta che non avevi nient’altro a cui pensare. Anzi, ogni volta che ti sembrava d’avere solo quello a cui pensare.
Quanto tempo passato davanti a quei muri, i muri del pianto con cui avresti voluto tanto fare a pugni. Scrostavi, scrostavi e cercavi le lucertole: quando ne trovavi una senza coda, pretendevi di salvarla, dimenticando di averla mutilata tu stessa, magari proprio il giorno prima. Sì, l’avevi data al gatto per giocare.

I ricordi brutti sono come le lucertole nei vecchi muri, quelli scrostati - magari portanti - e che ti piaceva scrostare; le lucertole s’infilano veloci tra le crepe, ci fanno le uova, si moltiplicano. E tu ci strappi le code perché i brutti ricordi non vuoi farli crescere ancora, non più: ma sai, le code si ricompongono.
I brutti ricordi hanno logiche strane: sono brutti e bruciano, eppure, alla fine, continui a preferire il masochismo, continui a fare il gatto, che con le code strappate ci gioca. Finisci sempre che coi brutti ricordi ci vai a giocare volentieri, li stringi tra le zampe, le mani, credendoli fatti di pongo, credendo di poter cambiar loro la forma; allora non hai capito, i gatti non sono certo delle volpi: se i ricordi sono brutti, brutti rimarranno.

29.4.10

a s s c e f p g c s

Mi mancate voi. Il nostro tutto. Mi mancano anche i silenzi, quelli nostri e che non danno fastidio. Mi manca parlare delle stesse cose in ogni cosa, trovare noi in ogni situazione. Ripetersi e chiedersi perché, perché la fortuna non è mai troppa, perché a loro tutto e a noi niente. Ma noi abbiamo noi, e non possiamo definirci niente. Mi mancano le vostre sigarette, i vostri segreti, le nostre merende. Le file al caffè, gli sbuffi dell’alba, i messaggi della sera. Mi manca il bel tempo: era bello anche quando pioveva, i capelli umidi e le facce struccate. Sempre uguale, ogni mattina, la solita voglia, il solito brio di chi vive di routine. Ma non sarebbe stato lo stesso, la routine non avrebbe ruotato senza di voi. Oddio, quanto mi manca parlare a vuoto, senza essere ascoltata, fare la pesante senza essere insultata. Oddio, quanto mi mancate. Vi voglio bene.

24.4.10

Sicurezza.

L’insicurezza non è femmina, cioè, non lo è per forza. L’insicurezza è un po’ di tutti, ma sono abbastanza sicura sul fatto che a me provochi singolari effetti collaterali: più sono insicura - nelle rarità delle mie circostanze in bilico, dove se sbagli, sbagli per sempre - più le mie fantasie giocano ad evolversi, tanto da suscitare in me sempre più solide sicurezze. In sintesi, la mia insicurezza è direttamente proporzionale alla mia stessa sicurezza; lo so, pare strano, ma quello scarto tra immaginario e realtà in cui tutti gli storici sembrano credere, è come se non lo vedessi o vivessi*. Piuttosto, in quello scarto, salto, scacco o dir si voglia, io oggi preferisco viverci*, e forse è per questo che non lo vedo, perché l’occhio critico, che ci scruta dall’esterno e da più lati, viene troppo spesso a mancare: è cieco.
Non importa, io amo comunque trascorrere giornate intere in quello scacco - se vuoi anche un po’ matto - mi ci tuffo e mi ci ficco, tutta, me lo prendo e me lo allargo, tutto. Ah, come si sta bene. È una condizione non condizionata, da non poter essere definita stasi. Tengo lo sguardo aperto, fisso, ma fisso altrove. Immagino come sarebbe, cosa sarebbe se io dicessi, se io chiedessi, facessi. Immagino come risponderebbe, il gesto, il saluto. La frase. Non conto inceppamenti, titubanze, tutto scorre nel mio scacco quando il re è con la regina. La luce è quella della pioggia riflessa nella mia tazza di tè senza fondo né futuro; il bersaglio è la luna, se la mancherò avrò comunque girovagato tra le stelle. Non parlo di dimensione del sogno, no, parlo del mio immaginario fatto d’immagini. Ah, come si sta bene. E la mia lingua? La mia lingua sta al passo col pensiero, e viceversa, con spontaneità, naturalezza, verità. Nel mio immaginario è tutto più vero, nel mio scarto, salto, scacco o dir si voglia io immagino talmente bene da credermi nella realtà reale. Immagino talmente bene che ciò che ho immaginato sia proprio pronto per essere vissuto*. Con sicurezza.


*N.B.
L'uso ossessivo del verbo vivere nelle sue diverse forme: /vivere su di sè/viverci dentro/vivere qualcosa.

18.4.10

Quando la salute ti saluta, è come se i ciao avessero l'eco degli addii.

Ci sono cose che non si possono dire, per convenzione più per convinzione. Non si possono dire, punto e basta; le tieni per te e per alimentare l'insonnia della sera. Hai paura, tanta, perchè nel momento in cui il tuo privato potrebbe conoscere spiragli di pubblico, temi che la luce faccia poi presto ad arrivare a grandi fasci: con la luce si vede la polvere.
Quindi, questa volta, preferisci non farlo, non parlare o parlare tra limiti di protezione, in tabù di tutela. Questa volta devi aver pianto talmente tanto che i tuoi occhi non distinguono più se fuori sta piovendo. Hai anche pregato tanto, pregavi che i giorni potessero aspettare ancora, che fossero lenti, pazienti, più di quanto tu avessi imparato a fare. "Non oggi, ti prego". Rimandi un pensiero da tempo, lo scacci via, ma poi scivola in trachea. La gola dentro suda.
"Non ci penso, oggi, no". Giorni, aspettate ancora un po'.

Fare ordine non fa male, formicola.

Hai buttato via ciò che restava, ad occhi chiusi.
La bocca amara, le mani sporche, di chi commette un delitto senza penale. La carta straccia che geme nelle dita sfregiate; e tu che non la senti, però intanto quelle righe le conti. Eh sì che alle pagine, di orecchie, ne feci parecchie: dicevi che così ti avrebbero potuto ascoltare.
Fare ordine è come riscoprire un mondo che non c'è.
I cassetti contengono sogni che non sono più i tuoi, sono sogni in polvere, di un cumulo divenuto troppo grande per essere spazzato via. Ci sono scaffali che cambiarono il loro perchè, che smisero di esporre i prodotti della felicità, ma che tuttavia riescono ancora a ridere in un ghigno di rimpianto. Così ti ritrovi a sorridere da sola, ti ascolti per darti ragione, ti stiracchi l'anima per coccolarti senza dignità. Il tempo dolce se ne va, se n'è già andato. Fare ordine non fa male, formicola.


Io mi gratto forte con le unghie, le affilo per graffiare.

25.3.10

Le delusioni vivono nelle cicatrici.

Finisco sempre con l’abbassarmi, il mondo mi vuole bassa. Invece io sono nata alta, altissima, tanto che nessuno è mai riuscito a guardarmi le iridi. E allora ci provo a stare bassa, giuro che ci provo, ma poi mi chiedo perché. Che io bassa non ci voglio stare, è contro natura, mi schiacciano, mi faccio male e non vedo un cazzo. Perché una buona volta non c’è chi si alza e mi raggiunge quassù? Perché non riesco a trovarli, i simili, gli alti o più alti di me? Oh, davvero, io ci provo tutti i giorni a stare giù, me ne sto al livello più sotto, tra chi è convinto di stare al di sopra, ma non mi rimane nulla e tanto meno riesco a lasciare qualcosa di me a loro. Ma cosa dico, di un pezzo di me loro ci farebbero solo tante palline di cerbottana. Quindi, a questo punto, chi se ne frega: sono stanca di fare il marinaio, di fabbricare corde e lasciarle alle persone, mania di possessione e timore d’abbandono; sono stanca dell'unilateralità, non ne vale la pena, quelle persone non sono nemmeno ancore, non potrò farne i miei punti di riferimento, non sono salde.

Serve un’inversione di rotta.

23.3.10

Mani.

Ripetono di continuo che le bugie hanno le gambe corte. Ma mio nonno mi aveva insegnato a guardare le mani, non le gambe: chi dice le bugie muove le mani non come chi non le dice.

Nelle mani ci sta tutto, anche quando stanno ferme, sono l’immobile nella velocità, stanno lì come radici di un albero al vento. Nelle mani ci vivono i germi - sotto le unghie le loro case, tra le pieghe le loro vie - cosicché, stringendoci la destra, ci scambiamo facilmente germi, c’infettiamo un po’ dell’altro fino ad ammalarcene. Allora non sarà più solo una questione di stretta di mano, ma di tenersi per mano, stretti.

Con le mani si fa tutto. Si mettono sul fuoco, tra i capelli, sulla coscienza. Si mettono avanti, si allungano o restano vuote. Si alzano al cielo o si alzano e basta, si tengono in tasca o in pasta. Mani giunte, mani di fata, mano armata. C’è chi le batte, chi le sfrega, chi le morde e se le mangia. Chi le bacia: chi nelle mani ci tiene il cuore. Mani pulite, mani bagnate di sangue, mani legate e bucate. Si vive anche fuori mano, si può andare contromano o agire sottomano. Ma poi? A me le mani piacciono perché posso cercare i profumi sotto le coperte e costruirci le storie.

A volte però non sono che imitazioni di noi stessi, ci rispecchiano d’obliquo, perché c’è un’intenzione in più, un gesto pensato o troppo pensato. Le mani macchina di un mondo d’inganno, le mani che copiano, che non fanno quello che siamo. Bugiarde mani, mani di seconda mano.
Ma poi penso che siano di più le mani buone. Le mani sporche di bambini che mangiano coni gelato, quelle sì che sono buone. Le mani delle mamma che prepara la torta, della nonna che prepara la sfoglia. Difatti è questo il loro modo di interagire: le mani interagiscono disegnando sorrisi e pianti, un modo fermo e immobile in se stesso, fermo perché loro e di tutti - usando gli stessi pennarelli - immobile perché comune e unitario - usando gli stessi fogli: ci rimangono solo le mani. Solo le mani sono verità.

22.3.10

Nel nostro angolo

Ho voglia di prepararTI tante cose. Lo sforzo è naturale, il muscolo è del cuore. Ho voglia di prepararTI tante cose, mettendo a disposizione tutte le energie, per creare il nostro angolo di paradiso. Sarà arduo - nemmeno il mondo è stato costruito in un giorno - ma non importa: sarà proprio il nostro angolo di paradiso a ridonarci l‘ebbrezza di volare, la possibilità d’amare.

Nel nostro angolo di paradiso mandiamo al diavolo le paure, apriamo i petti alla realtà, la prendiamo di petto e la guardiamo mutare per quei nostri piccoli gesti d’intimità messi a nudo. Per quelle tante cose che ho voglia di prepararTI.
Nel nostro angolo di paradiso siamo ballerini intenti a sistemare mondi, tu a sistemare il mio, io a cercare di capire come posso ringraziare la cometa: è passata sul mio cielo senza chiedere nulla, ma voglio darle tutta me stessa, lo stesso.
Il nostro angolo di paradiso non è affollato, non c’è tanta gente, gente che si riduce a essere una sola persona, angelo che mi sorride per le tante cose che ho voglia di preparargli e per le quali, altri, non mi avrebbero degnato se non di una smorfia. Le comete sorridono e io non lo sapevo.

Ho voglia di prepararTI tante cose, di leggerTI sogni negli occhi. Ho voglia di fare, di fare abbastanza a render l’idea dell’immensità che esistendo renderai mia, in quell‘angolo di paradiso spogliato di spigoli e confini. Perché quando si è innamorati, ci si supera. Io lo voglio, voglio finalmente che ogni attimo faccia sì che la vita si dilunghi, che i giorni valgano anni; come se scoprendo l'amore potessi ritrovare un tempo senza tempo e come se nello scoprire il tempo scoprissi il valore di una vita che varrà la pena di essere vissuta. Nel nostro angolo di paradiso non si muore mai.

16.3.10

Il tuo ritaglio di tempo.

Ti mordi l’angolo del labbro anche mentre cammini, perché ci pensi, ci pensi a questo tempo strappato. Ti ripeti che se hai voluto strappare tempo per te, ora è giusto che sia tu a doverlo tenere. Sfruttare.
Smettila di pensare che strappare voglia dire squarciare, che centri qualcosa con il togliere o il perdere, non hai perso tempo, lo hai solo ritagliato. È così sdrucito, sfilacciato, che puoi unirlo come vuoi; dove occorre una toppa, tu hai il tuo tempo da intarsiare. È il tuo ritaglio di tempo e non sai fino a quando potrai permettertelo. Puoi farlo bello, personalizzarlo, farlo per te. Ci sono i bottoni, i merletti, le passamanerie, e poi ci sono le maglie, gli orli, i lembi: li prendi, li stiracchi, se hai bisogno di più tempo, basta che tendi e distendi più che riesci. Allungare ed accorciare è solo un gioco di dita, o di vita, come se avessi tu in mano i fili di ciò che sarai, come un sarto di esperienze intento a cucire la propria, imbastendo su di sé l’abito su misura, quello che cade a pennello, quello in cui ci cresci dentro, ma che non sarà mai troppo corto.

9.3.10

Anche Leopardi scriveva le operette morali, quindi posso farlo anch'io. E uso tutti gli anche che mi pare.

Tutti, almeno una volta, ci siamo chiesti in che girone Dante ci avrebbe incastrato.

Non ho ancora capito se soffro più di uno o dell’altro,
di quei 7,
se più di gola o d’accidia o di lussuria.
Però incastrare il mio sedere non sarà così difficile.
S’incastra ovunque, e non centra nulla con l’essere fortunati.
Perché non sono nemmeno particolarmente fortunata.
Per me la Fortuna è una cosa a parte
Penso sia fatta di coincidenze
E io alle coincidenze faccio credere di non crederci.
Vabbè, Dante, vedi un po’ tu
dove vuoi mettermi,
semmai pensaci un po’ su
magari prima
prima che il mio sedere faccia da girone per conto suo.

Mi sa che sarò tra chi ozia. Pecco maggiormente d’accidia forse, e forse è l’accidia che mi porta ad aprire la gola per noia, comprendendo così anche la lussuria, anche se dipende da quando e come apro la gola. Se lo faccio bene o se mastico. Non lo so, vedi tu. Che io non sembro normale.

Oh Dante, guai a te se mi metti in Purgatorio che i miei non hanno soldi per pagare per farmi andare in Paradiso. Poi in Purgatorio cazzo faccio? Aspetto. E’ tutta la vita che aspetto non so cosa, quindi evita.
Oppure mi giro i pollici, io che morirò di tunnel carpale, come se di tunnel carpale si morisse. Vero.
Devi decidere bene Dante, non segua la mediocritas, che lei sa meglio di me non essere proprio sinonimo di mediocrità, ma scelga per me l’Inferno o l’Eden. Vorrei anche vedere in faccia quei due nudisti di Adamo ed Eva.

Sì però c’è un altro problema. Perché se mi metti in Paradiso il mio Paradiso come lo fai? Devi anche pensare a quello Dante, non ti posso dire tutto io. In Paradiso poi devi farci vivere il mio Beatrice, che in teoria devi trovare il modo di farmi conoscere anche qui sulla Terra. Cazzo Dante, ma ti stai impegnando? No perché del mio Beatrice non c’è traccia, c’è il commesso dei vini, quello figo, però non sono mica sicura sia lui il Beatrice mio prescelto. Ieri ho avuto la terza visione, e oggi? Oggi ho pensato che la visione di ieri in realtà fosse solo un’aurea di luce. Anche se non ti dico ‘ti prego’, sta notte Dante mi vieni in sogno e mi spieghi cosa devo fare?

1.3.10

Quindi ho deciso che la limitatezza non è poi così distante dalla stupidità.

Se mi hanno dato della depressa, significa che non sono stati all’altezza di decodificarmi. È classico tra chi indossa paraocchi, convinto di essere molto vicino al centro del mondo, poiché non vede nessun orizzonte oltre il suo naso, io che di orizzonti ne vorrei vedere tutte le sere, per dire buonanotte al sole e buongiorno alla luna. E non è detto che chi ha il naso più lungo, possa vedere o vedermi meglio, nel didentro dico.

Quindi ho deciso che la limitatezza non è poi così distante dalla stupidità. Quindi quando la stupidità mi sfiora, io mi scanso. Lascio passare. Ma quando ripararsi è inevitabile, quando la stupidità travolge con la forza di un vento e s’incolla alla faccia, non c’è più protezione, le grida escono mute dal collo. Sei imbrigliata in un tempo che sembra dilagare, che sembra non avere vie di fuga; non ci sono nemmeno le uscite d’emergenza, non ne fanno più.
Quanto ci vuole per liberarsi?
La fronte s’inarca. Con lei, l’angolo della mia bocca. Mi gonfio di cattiveria e di sputi da distribuire: funzioneranno come un estintore, tra il suo gas mi dileguerò; senza dimenticare, prima di cena, di lavarmi con la brusca fino all’ultima piega delle mani. La stupidità, che schifo.




















(è vivamente consigliato munirsi di mascherina, o non vorrete mica essere così stupidi da farvi contagiare?)

28.2.10

Cenere.

Succede ancora. Cerco il suo sguardo come se a lui importasse trovare il mio. Lo spio nella sua fierezza, sicuro in tutto ciò che fa. E le sue parole che non sbagliano mai ma bruciano sempre.
Un'ustione al cuore e un incendio ai miei pensieri, che non riesco a spegnere più.
Lo invidio. Perchè vorrei il suo mondo, quello che non ho e che forse avrei potuto avere.
Lo invidio, lui, la sua gloria, i suoi amici.
E' lo scotto da pagare per quella bambina che non sapeva giocare con il fuoco.
C'era il mio volto arso del suo ultimo saluto.
Il mio cuore inaridito.
Il mio letto come cenere spenta del nostro amore.
Anche questa notte mi spegnerò pensando a te.


Dedicata a un caro amico, F. R.

26.2.10

La risposta sembra scontata.

Capita che a volte ti addormenti chiedendoti come puoi aver chiuso così il cuore. Non hai mai avuto grandi dolori, non sei vissuta in un ambiente condizionante, pertanto non hai troppe scusanti. Non puoi essere nata senza sapere amare, anche i fiori amano le api e le api amano i fiori, perciò anche tu puoi esserne capace.
Sì, è vero, sei solita alla riservatezza, sembrano non piacerti le domande dirette, quelle personali: per te l’idea del personale è molto ampia, sei incline a chiuderti, arrivando a dare confidenza solo a chi non se la prende. Non è per timore, è che ti sopravvaluti finendo a sottovalutare i restanti.

Tu ami in modo limitato, ami verso poche direzioni, come se agissi lungo la brevità di un raggio, sotto una gamma ristretta da un metro di giudizio che riesce unicamente a condannare, mai ad assolvere.
Boh. Forse è che non ti accorgi dell’amore,  pur avendo imparato da sola a scindere il sesso dalle emozioni, non sai coglierlo, non sai coglierlo affatto; del resto non è facile come raccogliere frutta dai rami.

Ma ci credi nell’amore? E se ti ritrovassi così solamente perché non ci credi fino in fondo? La risposta sembra scontata malgrado tu non riesca a darle le parole che la fanno vivere.
Eppure certe sere ti senti dilagare. Aumentare di volume. Senti espanderti. Sulla pelle vorresti altro, carezze, profumi diversi dal tuo, vorresti poter avvicinare la tua anima a fuoco caldo e dolce. Vorresti poter abbandonare i pensieri.
Una volta per tutte le altre.
Passate.

Quando ci sei, fai un fischio.

Quando ci sei, fai un fischio.
Perché ci sei vero?
Guardo, guardo, e non ti vedo.
Allora ti aspetto.
Guarda che ti aspetto.

Io la gente la scompongo, mi viene facile e così lo faccio spesso. La scompongo, come dire che tendo a stereotipare generalizzando. Categorizzo, seleziono, ma soprattutto, scarto.
Mi bastano 5 minuti di vivisezione, 10 per le eccezioni. Una parola in più e scende giù. Spacciato. Senza nemmeno avere la consapevolezza di essere stato reso inerme dalla mia intransigenza, mi dispiace, ma non gli rimane nient’altro da fare. Non stavo aspettando lui.

Sto aspettando te.
Nell'attesa associo volti, metto insieme qualità.
E ti faccio come voglio.
Cioè come vorrei che tu non fossi.
Vabbè.
E ti faccio come voglio.
Aspettandoti.

23.2.10

Da un'altra parte.

Cerco qualcosa di sempre più bello che possa essere reso simile all’inconsistenza dei miei sogni. E’ un regalo che nella mia vanità mi farei volentieri: regalarmi a ogni risveglio una bellezza da guardare. Essere lì, a guardare, essere lì eppure essere in un altro posto. Insieme. Come un viaggio senza andata né ritorno, dove la luce è la stessa delle mattine d’estate o dei tramonti in montagna. Un viaggio lì, a guardare, rimanendo fuori, fuori dal mondo. E allora fuori come va? Fuori va che va da Dio. Un viaggio di noi per tutto il mondo, un viaggio che faremo e rifaremo. Sempre in viaggio, in un cuore o nell’altro, ma sempre nel mio. O nel tuo.

Donna alla finesta, 1822, C. D. Friedrich

Se vuoi, è sempre san valentino.

C’è amore nell’aria.
Lo rubo a chi ce l’ha.
Respiro un po’ più a lungo
E lo tengo tutto dentro
Fin quando ce ne sta.


Posso anche morirci affogata.
Amen.

7.2.10

REEBOK FREESTYLE

Chi mi ha vissuta, lo sa.
Sono l’emblema della sportività.










Reebok, puoi sbagliare la pronuncia, ma il senso è quello, Reebok. Da oltre un secolo veste i piedi di tutta Europa, poco importa se non ve n’eravate accorti, ma sappiate che dobbiamo tanto a Joe e Jeff Foster; in effetti più a Joe, che a Jeff, e non fatevi troppe domande.
Semplicemente fu Joe, da ragazzo, a vincere il dizionario sudafricano che, con fare quasi dadaistico, portò allo spelling del nome: Reebok sta per Rhebok, dizione afrikaans-olandese di una delle oltre novanta specie di antilopi che abitano il nostro pianeta, e non spaventatevi.


Ho pensato per anni che Reebok fosse un marchio privo di vita, da tute tecniche di seconda mano, sottovalutate e svalutate, sbeffeggiate dal baffo della Nike. Del resto, non potevo sapere. Poi un giorno le vidi, loro. Raggio di sole, terra in mare aperto, soffio di brezza, acqua nel deserto, loro: Reebok Freestyle.
Correvano i premi mesi del 2008, due anni fa e, sapete, io avevo due anni in meno, ma non meno pretese. Le capii dal primo momento e loro capirono me. Così, ora stanno qui, in una bacheca d’etere, in fondo ai piedi del letto, sacre. Attendervi è stato un piacere, mie pargole, la Free e la Style, belle di mamma.











































La Free e la Style sono uno stile libero che non si nuota. Non serve cloro o aria, del resto non stiamo parlando di scarpa che respira, ma di apnea profonda nel panorama modaiolo anni ‘80, immersione no limits nella cultura pop del tempo, un tempo nemmeno così lontano, ma lontano abbastanza da poter essere rispolverato. Reebok Freestyle sono ancora una leggenda vivente, le più vendute velocemente nella storia della società, le prime ad essere pensate specificatamente per donne, proprio quando iniziò a dilagare la mania del fitness aerobico. In fondo la moda è revival, così insegnano e così vediamo. Proposte su riproposte, percorso continuo verso l’eccellenza, e poi versioni di svariate varianti, quelle che ti pare, giallo, rosa, verde, bianco, azzurro, per un look classico rivestito di carta da caramella, per chiamare visionari e originali, i più pazzi ed eccentrici delle strade. Reebok Freestyle. Se volete saperne di più, cercate da soli.



 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Fanno davvero al caso mio, sempre di corsa tra bodybuilding e danza e allenamenti di cheerleading. Eh sì, proprio così. Sono la coppia giusta per me, mi fanno assomigliare così tanto a Alex Owens.

30.1.10

Svegliarsi da sola non giova tutte le mattine

Cerchi coi tuoi piedi più freddi
le tubature più calde
sotto quelle piastrelle
strada per la colazione
nessuno ti ha lasciato i biscotti
o una parola buona intinta di caffé
solo un tavolo imbandito di briciole
ti rattristi a un’abitudine che non c'è.

Lavarsi i denti senza guardarsi il riflesso
non c’è bisogno di sentirsi sul cesso
la camera puzza di valige
sembra sudata di pioggia di pensieri
non apro la finestra da ieri
e mi arrabbio perchè la neve non c’è più
o non c’è mai stata
ingannatrice di una notte mancata
l’inerzia rimbocca il letto
ci sono ancora federe macchiate
e occhi sporchi di sonno
l’aria entra e la prendo di petto
sulla mia faccia senza poterla respirare
aderente sopra la bocca
una museruola che non mi fa urlare.

L’armadio vuoto vuole apparire più piccolo
le crucce rimangono sole ma si fanno compagnia
le invidio per una testa ricurva che non è la mia
hanno un uncino che può fare male
invece io non ho più ganci dove aggrappare
poi guardo l’armadio, le scarpe e i maglioni piegati
la gonna mai messa, la braga più smessa
paia di calze spaiate
tette lasciate nelle coppe
guanti bucati di dita
tutto si fa ordinato alla partenza
ordine d’apparenza.

Non so come colorare il mio volto
è come chiedersi il colore della felicità
il sorriso non so chi l'abbia tolto
ci penso, ma mento una mezza verità
ultimi saluti invocano un concerto
mi chiudo nell'armadio
diventerò il mio scheletro, di certo.

23.1.10

Speciale.

C'è il sole.
Ci sono mattine dove sei più speciale.

Sono speciale.
Sono speciale anche se peso dieci chili in più e mangio Crispy McBacon.
Sono speciale anche se non vado in Chiesa la domenica.
Se dico cazzo anziché cavolo.
Se accelero in ritardo.
Sono speciale anche se non studio più.
E poi piango.
Sono speciale quando russo.
Quando sputo la coca-cola mentre rido.
Quando faccio la realista: fingo.
Sono speciale perchè ho i capelli lunghi lunghi.
Perchè ho gli occhi azzurri e sono larga e di larghe vedute.
Perchè nuotavo mille-nove-e-cinquanta all’ora.
Dalle sette alle otto.
Il lunedì e il giovedì.
Sono speciale anche se non metto in ordine la camera.
Sono speciale anche se dico le bugie.
Sono speciale anche se nella mia guancia ci affondi.
Sono speciale anche se mastico meglio le cicche che l’inglese.
Sono speciale anche se mi piacciono i film drammatici.
Se leggo meno di quanto vorrei.
Se scrivo anno avuto senza h.
Se ho la tosse.
Se non sopporto.
Se canto.
Se urlo.
Sono speciale perchè sono Sagittario in Italia e Cavallo in Cinese.
Perchè sono la più brava a prendere appunti.
Sono speciale anche se non conosco le capitali del mondo,
Né i quadri del Louvre.
Sono speciale anche se non so pedalare senza mani.
Sono speciale anche se non fumo, ma bevo.
Sono speciale anche se mi prometto tutto senza mantenere niente.
Però le promesse agli altri le rispetto.
Giuro e prometto.
Sono speciale a fare le valige.
Sono speciale a fare la spesa.
Sono speciale a fare frasi fatte.
Sono speciale a prendere il treno.
Sono speciale a non essere figlia unica.
Sono speciale a essere materna.
Sono speciale a commuovermi.
Sono speciale ad ammirare i finestrini.
Sono speciale ad avere amici speciali.
Sono speciale ad abbracciare di rado.
Sono speciale a salutare mio padre.
Quando parto.
Soprattutto.
Sono speciale anche se non ti dico che ti voglio bene.
Perchè non te lo dico se te ne voglio davvero.

Però, ti prego, dimmelo almeno tu che sono speciale.
 
 
C.

12.1.10

Sempliciotta.

Sarebbe dovuta nascere sempliciotta, sarebbe stato meglio per lei e per chi le stava attorno, e sicuramente non si sarebbe posta tutti quegli inutili perchè, senza il problema d'indagare il vero senso delle cose.

Sempliciotta, non stupida, ma sempliciotta. Con il cervello limitato in confini d'ingenuità, lo sguardo delicato, di chi non conosce cattiveria o malizia o determinazione. La sempliciotta è sorridente, è spensierata. Pensa in grande o pensa troppo facile.
Non ha concretezza, vive nel mondo d'utopia, un mondo dove il Bene vince sul Male, in cui l'amica migliore è la sua Fantasia. E' come se la sua mente fosse il colino della realtà, il setaccio di una spiaggia sporca: trattiene i sogni nel secchiello, lo fa con cura, con il suo tatto leggero e la paura di poterli sciupare; la sempliciotta è piccola, ma dai sogni sconfinati.
Per lei non ci sono angoli bui, strade tortuose, cammini intralciati o da intralciare, per lei ci sono solo le rose e i fiori, volti d'acqua e di sapone, niente di cattivo, niente di scorretto. O se c'è, non riesce a vederlo, non distingue nulla se non il rosa dall'azzurro, le bambine dai bambini. La sua fede è per il Dio Amore, per il bacio del risveglio, le parole dolci, le principesse ed i ranocchi. Crede all'Amore come a ogni persona, a ogni parola detta, scambiando gentilezze per dichiarazioni, ironie con verità. E' una credulona, ma anche lei dice bugie, quelle buone però, quelle che se scoperte non tradiscono nessuno.


 Vorrei anch'io essere nata sempliciotta.
C.

10.1.10

Do not cross the railway lines.



"Do not cross the railway lines"



A volte le cose vanno fatte di nascosto,
è per questo che esistono i sottopassaggi.
Però non confondere i sottopassaggi con le scorciatoie.
Nei sottopassaggi ti puoi perdere.


C.