10.11.13

OFFICINA DEL VINTAGE

Non è più roba da cantina o da soffitta impolverata, il vintage scende in piazza: è uscito dagli scatoloni per mostrarsi in tutta la sua delicata bellezza, una bellezza fatta di piccole cose e di cianfrusaglie incantevoli. Ma oggi, con il dilagare di festival tematici e con l'abuso dello stesso termine, cosa possiamo ancora definire vintage?

L'espressione deriva dal francese antico vendenge, che a sua volta deriva dalla parola latina vindēmia, indicante in senso generico vini d’annata, pregiati. In sintesi: siamo sempre i soliti e ci siamo ubriacati, ma ubriacati di malinconia a grandi sorsi, di ricordi che non potranno mai essere realmente nostri. Ci siamo ripetuti “si stava meglio, quando si stava peggio” anche se alcuni, quel peggio, nemmeno l’hanno vissuto, forse solamente sentito dire dai nonni, coi loro racconti dove i protagonisti che ritornano sono, in ordine, i fossi, i frutteti e le galline. Ci siamo vestiti come nostro zio, con il papillon, il panciotto, il maglione infeltrito, il calzino a vista sotto il sandalo di cuoio e tutti quei minimi dettagli che credevamo poter far la differenza, ma che, alla fine, abbiamo scorto solo noi. Ci siamo infilate dentro a vestitini a fantasia, floreali o tartan, come se fossimo fresche ragazzine di campagna, poi li abbiamo abbinati a una 2.55 di Chanel e a una bombetta Borsalino, creando cortocircuiti di epoche e di significato. Ci siamo comprati una vecchia Polaroid. Ci siamo seduti su una panchina del parco con un’Olivetti sulle ginocchia. Abbiamo persino provato a fumare una pipa, rinunciandoci subito, rassegnandoci a tenerla solo in bocca, un po’ così, spenta. Perché fa più vintage. Senza accorgercene, siamo finiti a vivere all'interno di un filtro Instagram ingiallito: la patina di nostalgia è scesa per sempre su di noi.

Pertanto non è più – o non è mai stata – una mera questione di moda, piuttosto un modo d’essere, di sentire, di guardare il vecchio in modo nuovo. Il vintage non è tendenza o controtendenza, non è sinonimo di pin up o hipsterismo, non è nemmeno travestimento, seppur ci regali abiti da favola, d’accozzare a piacimento, con il rischio di violarne la memoria. Il vintage è un enorme bacino di storie, la cui forza narrativa è in grado di superare i confini del tempo, di andare al di là dell’orlo di una gonna, per immergersi nelle stratificazioni del gusto, nella ricchezza di usi e costumi dimenticati. Passeggiare tra i mercatini dell’usato deve divenire un momento di ricerca, di scoperta, di mistero che si trasforma in meraviglia. Deve divenire un’occasione di confronto tra ciò che eravamo e ciò che siamo, al fine di migliorarci, non di rimpiangere. Il vintage non è uno stile, al massimo, una forma d’affetto, di amore per le piccole cose, un desiderio di ricostruire un mondo intimo e prezioso. Nei festival del vintage, come nei nostri armadi, non deve vincere l’accatasto o l’accumulo, ma devono vincere gli oggetti come singoli, quindi il valore che ognuno di essi ha avuto nel passato, nel mutarlo e nel condurlo fino noi. Noi qui, dentro al nostro filtro Instagram.



Ora sì che siamo pronti per immergerci, dal 22 al 24 Novembre 2013, nella primissima edizione del Festival OFFICINA DEL VINTAGE, presso gli Imbarcaderi del Castello Estense di FERRARA (http://goo.gl/kpZknA); un nuovo punto di riferimento in Italia per gli appassionati del genere, per suggerire un percorso di sostenibilità legato al riutilizzo di capi e accessori moda e favorire un approccio non convenzionale al vintage e al remake. I visitatori potranno elaborare uno stile personale grazie alla presenza di oltre venti selezionati espositori, provenienti da tutta Italia, in grado di indicare, consigliare e moltiplicare la curiosità e le passioni. Ci saranno capi e oggetti d’antan, ma anche nuove creazioni artigianali che rivisitano il costume del passato attraverso il presente: abiti, cappelli, occhiali, borse, scarpe, gioielli, oggetti di design, libri, manifesti pubblicitari e tanto altro. Ferrara sarà crocevia di mode e tendenze ricercate e originali. Un vero e proprio Festival ricco di eventi: incontri, presentazioni, spettacoli, concerti, show cooking, set fotografici a tema e sedute di hair styling. Per maggiori informazioni: www.officinadelvintage.it.


31.10.13

La signora dei coriandoli

Vorrei che ti rimpicciolissi come un coriandolo azzurro, anzi no, un po’ azzurro e un po’ giallo, di quelli che vengono sputati fuori difettosi dalla grande bocca della signora dei coriandoli. A me fa un po’ paura la signora dei coriandoli.
Vorrei che ti rimpicciolissi come un coriandolo a due colori, cosicché, mentre sarò in festa, ti scoprirò sospeso sulla punta del mio dito. Dovrò soffiare forte per farti volare via, ma io non soffierò se non dopo averti passato sulle labbra come un gloss: le ritroverò bagnate di rugiada dolce al mio risveglio. Ti metterò su una guancia, così sarai il mio neo. Ti appoggerò sulle mie ciglia, così sarai il mio brillantino. E forse anch'io brillerò. Ti poserò sul mio ombelico, così potrai farmi il solletico per tutto il tempo che vorrai. Proverò persino a infilarti nel naso, perché tra gli innamorati si fa così, ci si respira. Ti sistemerò dentro al mio occhio per avere un orzaiolo con un nome o per lacrimare gocce magiche quando ti penserò. Ti scioglierò in un bicchiere d'acqua e zucchero: ti manderò giù per farti fare il giro del mondo, mostrarti il cuore più grande dell’universo, lo stomaco più contorto della galassia, i polmoni farciti di polvere di stelle. Ti vorrei rimpicciolito come un coriandolo perché così potrei spedirti all'avventura, in esplorazione, dal mio orecchio, su, su, fino alle rotelle dentellate. Su, su, dove c’è bisogno di far ordine. Dove ci sarà sempre e solo bisogno di te, del tuo carnevale. Ora ti mando un bacio, un po’ azzurro e un po’ giallo. Poi ti sputo fuori dalla mia grande coriandolosa bocca. Difettoso.

4.9.13

Pluriball

Io, con le mie parole, confeziono coccole, le infiocchetto e poi te le regalo. Te le regalo sempre. E trovala un’altra come me, trovala, in grado di scegliere la carta da pacchi in rima con il nastro, quello rosso scarlatto, arricciato a dovere per seguire le giravolte d’apostrofi e virgole. Io, con le mie parole, impachetto caramelle, caramelle gommose, così posso regalartene dei sacchetti interi, da due etti l’uno. E tu puoi giocare a riconoscerne le forme e i colori: orsetto, uovo, vermi, anelli, ciucci, coca-cole. Sono buone. Altre volte, con le mie parole, ci faccio delle bollicine e le attacco sui fogli di polietilene: imballo le tue fragilità, le tue debolezze, i tuoi pregi, le tue ricchezze. Imballo i nostri ricordi svaniti, i nostri amori mai amati, le nostre collezioni, i nostri sogni a metà. Imballo le nostre vite, con le mie parole, preparando traslochi, viaggi, mondi interi di mie bollicine. Tu, però, non scoppiarle.

22.7.13

Patina

Oggi ho pensato che l'ora del tramonto sia esattamente come un abbraccio globale. Arriva in silenzio, con delicatezza di passo, appoggiando il suo dolce peso sul mondo. Il peso di una patina sottile, buona, di una bellezza che in musica diverrebbe un tintinnio. A volte gioioso, altre nostalgico, ma mai stridente o insopportabile. E con la patina, tutto ciò che prima si scorgeva, lo si potrà scorgere meglio. Adesso, sotto il tramonto. Perché persino la luce sembra rallentare, diminuire la sua velocità, per fermarsi ad accarezzare le montagne, gli orizzonti, i tetti delle case, immobilizzandoli in un momento felice, a tratti eterno. Così, mentre guardo le gradazioni del cielo, l'arancione, il rosa, il rosso, mi convinco che - ovunque tu sia, su quelle rive che un mare intero divide dalle mie - siano le stesse che riflettono sul tuo volto, ricordandoti ancor più bello di come ti ho lasciato. Mi convinco che, nell'abbraccio globale, io possa ritrovarti. Che il tramonto ci stringa tutti, tutti quanti, talmente forte e talmente stretto da riscoprirmi all'improvviso accanto a te, appiccicata a te, mio compagno di crepuscoli e scogliere. Ti bacerò fino a quando il Sole se ne andrà, ma poi arriverà la Luna e allora continuerò.

10.7.13

Biglietto

Voglio grattare via il tuo nome, grattare così forte da scavarci una conca, una conca capiente e accomodante; una buca nel mezzo di un terreno riscopertosi vivo, da riempire di cuscini, candele, fragole e cioccolata. Ci allestirò un picnic privato, mi sdraierò su una tovaglia vichy, berrò acqua, poi vino, Ouzo, whisky. Non sarò da sola, ma stretta tra le braccia eccitate del prossimo venuto. Sarò io a chiederglielo: «Stringimi, stringimi, meraviglioso amore mio». Ma non gli dirò la verità, non gli dirò che in quelle braccia vorrei perdermi, sparirci soffocata. Non gli dirò che siamo seduti su quella conca che è una fossa, la tua, che morirci dentro sarà come raggiungerti nel luogo lontano in cui io stessa ti ho mandato, sperando che qualcuno ti potesse fare fuori. Allora lui mi stringerà, mi stringerà, mi stringerà...
Vorrei grattare via il tuo nome impugnando un raschiatoio antico, di selce, di quelli appuntiti con cui scuoiare la selvaggina al termine di ogni caccia, per poi nutrirsi in pozze di sangue crudo. Un raschiatoio con cui scrivere sui muri umidi delle caverne, rappresentando scenette di virilità preistorica. Raschierò via il tuo nome, riempirò di graffi il mio cuore già imbruttito, pieno di bernoccoli, laddove tu eri solito picchiarlo. Graffierò il mio cuore già graffiato, lo riempirò di graffi fino a quando saranno talmente fitti da non notarli più, che la superficie sarà un unico grande graffio, pelle squarciata, rossa come una pozza di sangue crudo. Scaverò il tuo nome, ci farò sopra un picnic o forse una festa, una festa grossa, con l'acqua, il vino, l'Ouzo, il whisky, così affollata che mi ci perderò dentro e ci morirò soffocando, pestata dagli uomini ubriachi e dalle loro donne danzanti. Raschierò, gratterò, graffierò, forte, sempre più forte, che il mio cuore il male non lo sente più. «Stringimi, stringimi meraviglioso amore mio». Il tuo nome se ne andrà, come se ne andranno gli incantesimi, come svaniranno i nostri sogni di pongo e di sabbia, le aspettative che avevo riposto in noi, che avevo risposto in te, forgiatore d'illusioni, sordo, senza più la voglia di ascoltarmi. Il tuo nome se ne andrà e io continuerò a vivere morendo. Ora piega in quattro questo biglietto e stringimi, stringimi, stringimi...

6.7.13

Cilindro

Ciao,

Ti scrivo perché è l'unico modo che oggi possiedo per abbracciarti. Non ti nego che ho incontrato non poche difficoltà nell'incominciare questa lettera, poiché indecisa nell’utilizzare un incipit a sorpresa, più enfasi, più slancio; una bella frase effettata, di quelle che mi escono parecchio bene, coriandolosa il giusto per darti il benvenuto alla mia festa, per farti sentire fin da subito l'invitato speciale, il protagonista nella giostra delle mie parole. Ma poi ho preferito scegliere un inciso pacato, limpido, se non scontato agli occhi di molti, ma che racchiude il senso originario e finale del nostro rapporto: ti scrivo perché è l'unico modo che oggi possiedo per abbracciarti.

Prima non ci avevo mai pensato e vorrei che ora ci pensassi anche tu, qui con me, per darmi conferma di ciò che sto per dire: noi siamo definibili e definiti all'interno di un abbraccio. Noi siamo abbraccio. Nulla di più, nulla di meno. Quando ci stringiamo, intorno a noi si innalzano le pareti trasparenti di un cilindro. L'impronta di un cerchio rimane impressa per qualche minuto nell'erba del parco, come se quelle stesse pareti fossero state piantate al suolo o provenissero dal cuore della Terra, là dove il battito è la somma dei battiti di uomini e animali. Pareti trasparenti, ma di una trasparenza che non appartiene né al vetro, né al ghiaccio, piuttosto a uno spray, a una lacca. Io lo so cos'è, è il tuo profumo: si miscela al mio e si scompone in particelle collose tra loro, insolubili e resistenti. Tanto resistenti da costruire un cilindro trasparente che parte da sotto e raggiunge la cupola del cielo, nel caso esistesse. Perché noi dal parco non possiamo scorgerla, noi dal parco non scorgiamo nessuna fine. È così alto il nostro cilindro, è così forte il nostro abbraccio. Però, se provi ad accarezzare le sue pareti con la punta delle dita, una scia di particelle si arcobalena in un lampo, che come un lampo sparisce, ricomponendosi, silenziosa. Eppure noi siamo lì, stretti, ben visibili in un cilindro invisibile, coi profumi che fanno l'amore, lasciando le loro tracce sull'erba. Solo chi riuscirà a calcolare la circonferenza del nostro abbraccio, quindi la radice quadrata dei nostri gomiti, la potenza dei nostri sguardi e la curva di funzione formatasi all'incrocio delle nostre teste, allora riuscirà realmente a definirci. E avrà voglia a sua volta di abbracciarci.

Tu mi hai sempre abbracciato tanto, senza chiedermelo e senza che io te lo chiedessi. Sei la persona che ho abbracciato di più in assoluto, non occorre fare la conta. Ci siamo sempre abbracciati tanto e in quel sempre non riesco a ritrovarci un inizio. Mi fa sorridere che io non ricorda la primissima volta che ti ho parlato. È una cosa brutta? Perché io davvero non lo ricordo, non ricordo quel momento, ma solamente i successivi e anche un po' vaghi. Non è una cosa brutta, credo. Forse significa che ci conosciamo da sempre o da mai e che tra il sempre e il mai non ci sono altri avverbi o se ci sono, sono derivati da un tempo scandito dagli abbracci. Allora valgono gli abbracciatamente, gli abbracianto, gli abbracciove, gli abbracciossia, gli abbracciachè. Gli abbracci tuoi, puntuali. Ti prometto che sarò più puntuale anch'io nello spedirti le mie lettere. Che ho capito quanto tu ne abbia bisogno, cioè, ne abbiamo bisogno entrambi.

Un abbraccio,
A presto.

29.6.13

Particelle infenitesimali

Dovrei leggere di più, dovrei leggere tutti i libri che non ho mai letto e che mai leggerò, quelli che ho già letto rileggerli di nuovo, quelli lasciati a metà leggerne l'altra metà, per poi rileggerli alla rovescia, una seconda volta, dalla fine all'inizio, e scoprire che l’inizio è stato cambiato. Dovrei leggere di più, persino quei libretti che ti compri sempre tu, che per me sono storielle, robetta, ma se rifletto, mi dico, che diavolo posso saperne? Io che dovrei leggere di più e tu che leggi più di me.
Dovrei leggere tutti i libri di tutte le biblioteche di tutto l'universo, quelli che sono stati regalati, bruciati, dimenticati, nascosti, rubati, prestati e mai riavuti. Ma per fortuna, nell'universo, nulla va mai perduto, tantomeno i libri, perché le cose perse in Terra le ritrovi sulla Luna. Ed è là che andrò, quando vorrò leggere in pace, tra le stelle uguali a lampadine da comò, che si accendono e si spengono ad ogni pagina sfogliata.

Dovrei leggere di più: gli opuscoli delle istruzioni, le riviste di settore, le liste della spesa, gli ingredienti tossici delle gomme americane, i cartelli stradali, i dépliant delle agenzie di viaggio, le didascalie dei musei, i sottotitoli dei programmi tv, gli elenchi telefonici, le locandine dei concerti, i volantini incastrati nei parabrezza delle auto, i biglietti del cinema, i sussidiari delle elementari, i diari di scuola, i calendari, i moniti dei pacchetti di sigarette, i fondi delle tazzine di caffè, i graffiti che colorano i treni per Suzzara, i dizionari, i codici a barre, i titoli di coda, le dediche sulle tombe dei defunti, gli annunci mortuari, gli indici delle mappe cittadine, le code degli aerei sulle spiagge della riviera, le tue mani.

Dovrei leggere di più, compresi i fantasy o i noir o i saggi di filosofia, nonostante preferisca di gran lunga i romanzi rosa: lo sai, lì ci posso trovare le belle frasi da dedicarti al risveglio, le frasi d’amore, racconti dove il protagonista maschile ha sempre un non so che di tuo e dove la sua lei assomiglia sempre un po’ a me. Credo che gli autori dei romanzi rosa pensino molto a noi quando scrivono le loro frasi d’amore, a noi come idillio perfetto. Tu non credi? Ma il nostro idillio perfetto è così perfetto da tradurre in parole. Le parole, le definizioni, subiscono uno scarto di realtà o, a volte, fanno del vero qualcosa di più vero. Si avvicinano a ciò che noi siamo, ma non ci colgono mai appieno, perché alcune particelle infinitesimali del nostro idillio, sfuggono, non si manifestano, incomprensibili e arcane. Io leggo, io devo leggere di più, perché devo ritrovare quello scarto, quello scarto disperso, mettere insieme le parole di un libro e l'altro, come un collage di ritagli che possa illuminare le nostre particelle più oscure. Devo. Devo leggere di più, solo così riuscirò ad ottenere la spiegazione, la regola, la matrice del nostro amore, puro perché parcellizzato all'infinito. Solo così riuscirò a scriverne la formula algebrica, con le parentesi che hanno il profilo delle tue orecchie e gli asterischi che brillano come i tuoi occhi. Solo così. Devo leggere di più: scriverò ciò che nessuno ha mai scritto, ciò che nessuno è e mai riuscirà a scoprire.

26.6.13

Vaso

Ogni volta che andavo a farle visita, mi sembrava essersi rimpicciolita di una spanna. Poi di un’altra. Poi di un’altra ancora. Era diventata uno scricciolo. Qualunque suo movimento avrebbe fatto scricchiolare le sue ossa, o almeno, quelle che le erano rimaste. Perché molte si erano sbriciolate già da tempo - friabili come biscotti per il tè - e depositate nel fondo del suo corpo ricurvo: un albero dalla chioma di pensieri troppo gravi per un tronco così flebile e sottile. Era diventata uno scricciolo nodoso, un mobile vecchio, che i tarli si stavano portando via. Ma le bavelle di luce che scorgevo tra le pieghe del suo volto, conservavano il ricordo della sua maestosa bellezza.

Ogni volta che andavo a farle visita, desideravo poterla raccogliere, stringerla prima piano poi forte e riempire le pieghe del suo volto di baci, colmandole di tutto l’amore che negli anni lei stessa mi aveva dato. Baci siliconati, baci di colla, per tenere saldi i pezzi traballanti di un vaso prezioso, un vaso di ceramica antica che qualcuno ruppe ancor prima di vedermi nascere e che nessuno riuscì mai a riparare. Ci avevano provato in tanti, eppure i cocci sembravano non volessero più combaciare tra loro: qualche minuscola scaglia se n’era andata per sempre, volandosene altrove, nel luogo in cui i vasi sono fatti di nuvole e sono così grandi da poter contenere l’intera umanità. Quando sono nata avevo trovato in quel vaso riassemblato alla meglio, un terreno morbido, ricco di tesori e di storie da ascoltare. Non mi fece mai mancare nulla e io finii col sentirmi il fiore più incantevole di tutto il giardino.

Le ultime volte che andai a farle visita, smise di farmi i complimenti. Del resto non c’era stato giorno in cui non mi avesse paragonata alla dama di un bel quadro. Ora spettava a me trovare le giuste parole, rassicuranti, sicure, che zittissero i suoi tarli, almeno per un po’. Avrei voluto poterla guarire, donandole nuovo calore, una sensazione che lei e la sua pelle sembravano aver dimenticato. “Ho freddo dentro” mi ripeteva, me lo ripeteva di continuo, con ossessione, con gli occhi smarriti di chi guarda ma non vede: “Ho freddo dentro, tu mi credi?”. Come potevo fare altrimenti, come avrei potuto non crederle. Scricciolo scricchiolante. Vaso rotto, riassemblato alla meglio, con le scagliette volate via e gli spifferi tra un coccio e l’altro. Avrei voluto strapparla da quel male, se solo fossi stata capace. “Ho freddo dentro” e più lo ripeteva, più il mio sangue raggelava assieme al suo. Tremava, le tremavano le gambe, le mani, il cuore, e il tremore era così forte che le mie braccia, sole, non bastavano a fermarlo. Mi chiedo ancora quale melodia si potesse percepire intorno a noi, con tutti quei singhiozzi spezzati, quei sibili, quei sospiri, quei brividi di dolore, di fatica. Il suo freddo era paura, paura di morire. E se morì prima di me, fu perché avrei dovuto proseguire al suo posto, essere io stessa il vaso di qualcun altro. Così come lei e solo lei mi ha insegnato.

24.6.13

Ologramma

Gli uomini sarebbero più felici se ci si potesse ologrammare. Non dico per un lungo lasso di tempo, perché forse basterebbe anche un solo semplice e dolce minuto, lo stampo di un bacio, un sussurro nell'orecchio, una tirata di piedi, un formicolio sulla pancia. In veste di ologrammi si diventerebbe come fantasmi, senza nessun precedente bisogno di morire; fantasmi opalescenti, di una lattiginosa trasparenza visibile soltanto agli occhi degli amanti. Si passerebbe attraverso i muri, le porte, le stanze, ma non si farebbero cadere né quadri né quisquilie. Si potrebbe camminare coi piedi sul soffitto, come sognavamo da bambini, quando provavamo a pestare il cielo, cimentandoci in mirabolanti capriole sul divano. Avremmo potuto romperci il collo, invece ora, con l'ologramma, potremmo persino volare. Leggiadri, puri, liberati dalla materialità dei nostri corpi e tornati ad essere spiritelli, spiritelli buoni. Non ci si potrebbe abbracciare, però si potrebbe alitare sul collo dell'altro: qualcosa di caldo a ricordargli che esisti, qualcosa di freddo per presagire una brutta notizia. Gli ologrammi accorcerebbero così qualsiasi distanza o mancanza. Allieterebbero i momenti bui, colmerebbero i vuoti. Coloro che si amano da lontano riuscirebbero finalmente a condividere degli istanti nuovi, senza dover finire, ogni volta, a rimembrare i vecchi, cibi surgelati che scongeli e ricongeli quando sei indeciso sulla cena. Se ci si potesse ologrammare, gli uomini sarebbero più felici. E io ora sarei lì, affacciata alla tua finestra più grande, con te appoggiato in bilico sul davanzale. Staremmo guardando il mondo da sopra la sua testa, felici. Tu vero e io ologramma. Giusto il tempo di una sigaretta.

2.6.13

Raggi buoni

Riesco ancora a meravigliarmi di quanta forza possieda un ricordo felice. La forza di nascondere quelli più tristi con uno strano effetto di luce, un abbaglio che acceca ogni cosa e ti ricopre di Sole. Io mi abbronzo dei nostri momenti migliori, miei e tuoi. Con la marmellata all'albicocca come crema spalmata, crema ad alta protezione, per proteggerci da chi, i nostri momenti migliori, non li capirà mai. I miei occhi sembrano persino più azzurri quando rimango immobile qui, a ricevere i raggi buoni, quasi diventassero schermi di cristallo su cui far scorrere i fotogrammi d'un film d'altri tempi.
Però mi piace starmene qui, distesa qui, mi piace proprio. Quando posso ne approfitto per starci il più a lungo possibile: voglio che i nostri raggi buoni mi arrivino fin sotto la pelle, impregnarmi di ciò che siamo stati perché magari così lo saremo di nuovo. Torneremo nuovi. Mi addolcisco al solo pensiero di te che ti soffi il naso di nascosto o che divori la piadina con la mozzarella bollente. Oggi ho esagerato con l'esposizione e mi sono scottata tutta. Mi sono scottata anche se ho fatto come mi avevi detto tu, anche se mi sono messa addosso la più dolce marmellata all'albicocca che custodivamo in dispensa. Penso di avere la febbre. Ma non preoccuparti, passerà. Amore mio, passerà.

1.6.13

Bozzolo

Ci sono giornate che portano il velo. Credo sia bianco. Spesso succedono a quelle notti dove hai fatto di tutto pur di non chiudere gli occhi. Perché sentivi i rumori provenire dalla tua testa e avevi paura di cosa avresti potuto sognare. Non ti ricordi su quale pensiero tu ti sia addormentata, ma ti ricordi che il buio se ne stava già andando.

In quelle tre ore di sonno, ho fatto persino in tempo a vedere mia madre entrarmi in camera, che non è mai la mia vera camera, ma non sono riuscita a chiederle niente perché se n’era già andata. Come il buio. In quelle tre ore di sonno c’è stato qualcuno che mi ha persino coperto con un velo, infilato in un bozzolo fino in cima alla testa, forse incastrando una ciocca dei miei capelli nella cerniera. Non penso sia stata mia madre; non ho potuto capire chi fosse perché avevo avuto quell’angosciosa sensazione di palpebre che non vogliono aprirsi. È una sensazione orribile. Come se si fossero incollate per farmi un dispetto, come a rendermi impotente.

Mi sono svegliata in un bozzolo setoso, di seta fine, così fine da poter guardarci attraverso e respirare senza affanno. La luce era opaca e lattiginosa, ma le cose sembravano rimaste ferme al loro posto. Questo mi diede subito molto fastidio. Vorrei sempre che ci fosse un nuovo arrivato tra i soprammobili del salotto, un fiore appoggiato sul tavolo, uno strofinaccio caduto a terra, una monetina sotto il bicchiere, una tazzina di un caffè bevuto in fretta. Invece le cose erano al loro posto. Di diversa c’ero io, che mi muovevo lenta, impacciata, quasi a trascinarmi il corpo, come un carcerato che alla palla al piede ci ha attaccato gli errori e i sensi di colpa di tutta una vita.

Chiunque mi avesse avvolto nel bozzolo sapeva che avrei trascorso la giornata lasciando che la noia si mangiucchiasse il mio tempo. Dalla finestra mi sarei soffermata più volte sulle cime più alte del bosco, invidiandole e invidiando i passerotti che possono dondolare lassù, assieme al vento, senza bisogno d’altalene. Chiunque mi avesse avvolto nel bozzolo sapeva che oggi avrei vissuto una giornata velata di malinconia, sigillata in un involucro bianco, fatto della stessa delicata sostanza dei ricordi, più vivi e vividi di me.

Praticamente è stato come starsene al centro di quelle bajour per bambini, dalla forma quadrangolare, sui cui lati sensibili appaiono le proiezioni cicliche di immagini a colori. Ecco, nelle giornate velate, velate di malinconia, è come starsene seduti lì in mezzo, a gambe incrociate, con le mani che cercano d'inseguire le ombre vivaci, quasi fossero la coda d’afferrare durante il giro veloce sul Bruco Mela. Sì, è proprio come starsene al centro di quelle bajour, con la tua mente che proietta i ricordi sulle pareti del bozzolo.

Provo a prenderli, sia mai che domani mi sveglio farfalla.

20.5.13

Vecchia mia

Non vedo l’ora di rivederti, vecchia mia. E divento una persona come un’altra nel dirti questo. Perché quando si è lontani, che sia per uno o per dieci meridiani, il centro del mondo torna ad essere la propria casa. Ed è proprio così, vecchia mia. Ma tu lo sapevi. Lo sapevi che non ti avrei mai dimenticato, che non avrei mai incontrato un tuo degno rimpiazzo. Tu che di piazze ne hai e ne hai di belle. Nessun’altra è come me, dicevi. Io facevo di tutto per non darti ragione, rinfacciandoti quanto fossi stata grigia, brumosa, in quei giorni d’inverno, quando i ragazzi non riuscivano a trovare rifugio. Lo ripetevo per farti del male e per non ammettere che in fondo, anch’io, la pensavo esattamente come te. Nessun’altra è come te, vecchia mia.


16.5.13

Fare la spesa

Immagina se ci fossimo incontrati da piccini. Mi avresti inseguito con le code di lucertole morte e saresti stato uno di quelli che nell'ora del silenzio non dormivano mai, ma disturbavano solo. Compresa me, che ero innamorata di Giammarco e annusavo i miei odori sotto le coperte dell'asilo. Immagina se tu ora fossi piccino e io grande. Ti potrei tenere in braccio e farti ridere facendo cucù. Invece adesso, per far in modo che tu rida, che tu rida di gusto, faccio più fatica. Tu che ridi con gli angeli. Però quando ci riesco mi viene voglia di darti i morsi per mangiarti, come fanno i grandi coi piccini, sì. Eppure non sono in grado di immaginare il contrario: tu grande e io piccina. Anche se sulla carta più piccina di te lo sono davvero. Carta straccia. Preferisco i tuoi straccetti, quelli che riusi fino al logorio, perché ci sei affezionato. Perché ti affezioni agli oggetti, alle cose, alle presine della cucina, agli asciugamani sbiaditi, alle tende della doccia. Mi piace guardarti quando andiamo a comprare insieme qualche nuovo ninnolo d'arredo, hai gli occhi attenti; anche se alla fine non badi mai ai colori dei soprammobili che teniamo già in casa. La casa al mare. Mi piace meno guardarti quando andiamo a comprare insieme qualcosa da prepararci per cena, ma ti guardo lo stesso. Sei così lento a scegliere, io sbuffo, ma ti guardo. E vorrei leggerti i pensieri stupidi davanti al banco dei formaggi. Io sbuffo, che non ho tanta pazienza con te, io sbuffo subito. Allora vado avanti e ti aspetto alla cassa. Ma dopo 5 minuti che mi son sembrati almeno 10, ti rivengo a cercare, perché questo è il tempo massimo in cui riesco a starti lontano. Se non ti trovo, mi spavento, ma eccoti sbucare. Eri ritornato al banco frigo e avevi messo giù uno yogurt per un altro. Dai, andiamo. La carta igienica la porto io. Hai visto come sono brava ad imbustare?

11.5.13

Ombelico

Mi hanno detto che i blog rischiano di cadere nella prolissità. E la prolissità è un po' come quell'orizzonte di mare senza scogli. Nulla si vede, nemmeno la fine. Funziona così: se possiedi un blog prolisso, stai certo che il lettore virtuale non raggiungerà mai la fine dei tuoi post. Mai. Se ti va bene, leggerà le prime tre righe. Solo le prime tre righe. Orpellose, sonore e sforzatamente accattivanti. Proprio come un occhiolino fatto da uno strabico. Se ti va benissimo, il lettore passerà dalle prime direttamente alle ultime, sorvolando il nocciolo. Chi è che di una pesca si mangia il nocciolo? Ma è quando pensi che ti sia andata benissimo che subentra il misfatto: il lettore ha scorso il tuo post fino alla fine, non per leggerla davvero, piuttosto per constatare quanto il tutto fosse prolisso, lungo e di conseguenza - pregiudizialmente - noioso. Segue la fuga dal blog, dove, se tornerà, sarà per caso o per errore. Per errore d'aver cliccato su uno di quei link con gli #hashtag simpatici che dissemini in ogni tuo vivacissimo profilo social. Lo fai apposta: utlizzi Google URL Shortener affinché l'abbreviazione incentivi la curiosità. Povero lettore, apre e NO SHORT, TOO LONG. Se ti va bene leggerà le prime tre righe. Se ti va benissimo passerà dalle prime direttamente alle ultime. Buona la pesca?

Mi hanno detto che i blog rischiano di essere ombelicali, ombelicali nel senso di lunghi come cordoni. Io ho un blog ombelicale, ma perché lo nutro dalla pancia. Ci finiscono sempre tutti i sassolini: nelle scarpe erano tanti da non starci più. E allora forse dovrei usare intestinale. Ho un blog lungo come un intestino. Solamente un po’ irritato.

3.5.13

Lo sconosciuto

Me ne stavo con uno sconosciuto a bordo di un aereo e ci stavo persino dormendo addosso. Era solo venerdì quando ci parlammo per la prima volta, al caffè letterario di Piazza Ludovico. Aveva i baffi. E, se avessero alzato di poco la luce, probabilmente qualcuno ne avrei avuto anch'io. Avevamo fatto l'amore guardandoci per tutto il pomeriggio. Poi, il mattino dopo, l'amore l'avevamo fatto davvero. Prima che si potesse accorgersi della mia ricrescita dall'ultima ceretta, avevo già prenotato il volo. Sbarcai dall'altra parte del mondo. Con lo sconosciuto. Non ebbi paura, seppur consapevole di non essere mai stata brava a improvvisare parole, a celare gli imbarazzi o a raccontarmi a mente nuda. In verità, non ero mai stata brava con gli uomini. Ma lui, lui sembrava sapesse ridere delle mie stesse cose. Avremmo potuto starcene avviluppati nel sonno per ore, schiena contro schiena, intenti a far del nostro amore una capanna. Perché la capanna c'era, lì, reale, sulla spiaggia, con le lampadine colorate appese a un filo svolazzante, il mare nero sullo sfondo e le stelle sopra il tetto a spiare le mie voglie. In quel gioco di luci e ombre avevo imparato a memoria la mappa del suo corpo - non c'era oceano più invitante - mi piacevano i suoi nei, il suo incavo del collo - mi ci tuffavo dentro. Felice. Ci siamo sposati così, coi piedi nella sabbia, a Chennai, in India, davanti a Padre Lawrence. Lo sconosciuto, oggi, è ancora mio marito.

29.4.13

Alla faccia di

Alla faccia di tutti coloro che il lamento sulla scelta universitaria è una prassi necessaria e durevole. Che la pagliuzza nell’occhio dell’altro la trovano anche quando non c’è. Visionari, beati loro. Eppure basterebbe poco: come impiegare la pinzetta leva ciglia e con quella levarci la pagliuzza, rendersi se non propositivi, almeno utili. Perché che utilità può avere un lamento? Foste le sirene di Ulisse.

Quando sono arrivata ero piccola così. Ingenua, ingenuamente spavalda. Di quella spavalderia adrenalinica da non-sono-più-una-liceale che ti fa credere di aver capito come funziona il mondo e quindi di riuscirci a correre sopra senza cadere. Poi, al primo esame, cadi. Come una pera, di cui hai persino la stessa silhouette. Poi, al secondo esame, rimedi. Ma la colpa non è mai tua, è del professore, si sa. Finché arrivi al terzo anno che non hai nemmeno fatto in tempo a goderti gli altri due, perché ti sei persa nel lamento, preferendo gli aperitivi, e allora qualche rimpianto te lo porti dentro.

Quando sono uscita ero un po' più grande di così. Ora sono in grado di andare oltre alla solita ridondante risposta: “la mia facoltà è tutta teorica, non c'è nulla di pratico”. Se volevi la pratica, cara mia, non capitavi qui. Se invece volevi imparare a dare una forma, un giudizio, un'analisi a quel contenitore poliedrico che è la moda come me l'hanno spiegata, allora sì, dovevi capitare qui.
Potrei usare una serie di metafore. La mia triennale è come un palazzo a più piani, con tante e tantissime finestrelle, da ognuna di queste la vista cambia, ma se le metti insieme il paesaggio è così bello che ti toglie il respiro. La mia triennale è una tavolozza di colori a tempera, sta a te trovare le combinazioni di nuance che si abbinano di più al tuo colorito. La mia triennale è un ricettario dai diversi e svariati ingredienti, sta a te capire quale sia la tua specialità, testando, provando e riprovando di nuovo. Vale la frase d'ogni mamma: se non assaggi, come fai già a sapere che non ti piace? La mia triennale è un puzzle interattivo o probabilmente 3D, dove ogni pezzo rimane in piedi da solo e al contempo si incastra perfetto ad un altro. La mia triennale è una cassettiera: sta a te scegliere in quale cassetto conservare i tuoi sogni.

Alla faccia di tutti coloro che continuano a lamentarsi persino in seguito al conseguimento della laurea. Io non ci credo che voi, il paesaggio, dopo tre anni, non l'abbiate nemmeno intravisto. Non ci credo che non abbiate assaggiato abbastanza, anche se solo di tutto un po'. Tantomeno che non riusciate a mettere insieme i pezzi di un puzzle 3D - sono addirittura più grandi di quelli classici; perché se non ci riuscite, questa volta, non è colpa dei professori, né dell'organizzazione universitaria e delle sue pagliuzze, ma in primis è semplicemente e soprattutto vostra. Che non avete sfruttato a dovere le opportunità offerte, le attività extradidattiche, la biblioteca. Che utilizzate internet solo per invidiare le Chanel della più bionda delle italiane, senza immergervi in altre vie di ricerca. Che siete insipide. Che siete state sedute nelle retrovie degli ultimi banchi. Che non avete mai alzato una mano durante una conferenza. Che criticate senza proporre. Che "perché studiamo questa roba?".

Io sono arrivata con una biro e sono uscita con una stilografica. Non perché non mi sia mai lamentata, anzi. Forse neppure grazie all'università, seppur essa mi facesse da culla, da sfondo paesaggistico e da cassettiera. Ma perché mi sono fatta i compiti a casa. Nessuno vi consegnerà tra le mani un lavoro bello e pronto. Come nessuno vi confezionerà mai un futuro su misura. Pertanto, un consiglio: le finestrelle non tenetele chiuse e sulla tavolozza non fate seccare i colori. Ad ogni vostro lamento, un sogno muore.

16.4.13

Biscotto

Diamoci appuntamento. Spostiamo il balcone della casa vecchia, la tua, dove ci abbiamo lasciato le nostre prime briciole, come Pollicini che non sarebbero mai tornati indietro. Quando ci baciavamo ne lasciamo cadere tantissime e più ne vedevamo cadere più ci baciavamo. Un po’ facevamo apposta, che tanto su quel pavimento non si vedeva nulla. Difatti, tutti erano convinti che ci passassi lo straccetto ogni giorno talmente il tuo alone umano sembrava puro. Tutto ciò che ti contornava scintillava con te, come una specie di Re Mida che dove tocca disinfetta. Perché sai sempre di pulito quando uno ti annusa, perché sai di pulito anche solo se ti guardo. Chissà, magari qualcuno con le nostre briciole ci ha impastato un biscotto. E magari ora è proprio alla ricerca di noi due, spinto dal desiderio di conoscere quegli ingredienti speciali: non aveva mai assaggiato cosa così buona.

Spostiamo il tuo balcone e riandiamoci a prendere le mie scale: decidi tu come metterli, se uno accanto all’altro o frontali o a rovescio. A me, davvero, importa solamente che siano vicini; per poterci salutare ogni mattina, mentre io mi spengo la sigaretta nel caffè e tu bevi il fondo del succo che ti è rimasto in frigo dalla settimana scorsa. Mi raccomando, non trascurare i punti cardinali, dove nasce e muore il sole, in modo che la sua luce sia la benvenuta a qualsiasi ora. Che a mezzogiorno illumini il solito tavolino sul tuo balcone. Che rifletta nelle birre fresche delle sere d’Estate, sulle mie scale. Poi, se vuoi, con una certa regolarità, possiamo scambiarci di posto o tu vieni da me, visto che sono sempre io quella che si muove. Anzi no. Vengo io, verrò sempre io, non m’importa nemmeno questo. Perché mi piace passarti a prendere che poi alla fine non usciamo più anche se dovevamo uscire perché ci siamo persi a parlare di briciole.

Tu decidi come, ma insieme decidiamo dove. Sarà un dove diverso ogni volta che avremo voglia di cambiare prospettiva. Il tuo balcone e le mie scale saranno come due roulotte nella roulette delle nostre vite. Saranno come case galleggianti quando ci sposteremo per mari e fiumi, mentre in riva al lago si trasformeranno in palafitte. Saranno come palloni aerostatici quando raggiungeremo il circolo polare artico, con le nostre briciole appiccicate addosso a riscaldarci meglio. Il tuo profumo congelato in un vasetto, nel tuo frigo, di fianco al succo.

In realtà non sono del tutto sicura che saremo noi a spostarci, in sella ai nostri mezzi d’edificio, o se saranno le città a farci la corte per averci. Sotto il tuo balcone ad acclamarci. Forse, dalla cima delle mie scale, riusciremo persino a spostare con un dito la geografia del mondo intero. A spostare le isole creando nuovi arcipelaghi, come se stessimo usando uno di quegli schermi interattivi che trovi nelle sale dei musei. Forse riusciremo a dar vita a un pianeta su misura, in moto perpetuo, in moto non tanto su se stesso quanto dentro di esso. Un pianeta con gli angoli nascosti, le cacce al tesoro, l’accesso a internet illimitato, gli strapiombi, che se ti butti giù non ti fai male perché di sotto c’è il tuo materasso dell’Ikea: funziona da nuvola d’oro. Potremo balzare da un capo all’altro che tanto un capo non esisterà mai. Le uniche estremità, nel nostro pianeta in movimento, saranno quelle del telefono senza fili che useremo per chiamarci dall’ufficio. Non ti preoccupare, non ci perderemo, anche se tu salterai a destra e io a sinistra, perché la forza magnetica ci ricondurrà nel punto più esposto alla luce del Sole. Sul tuo balcone a mezzogiorno, sulle mie scale nelle sere d’Estate.

Diamoci appuntamento, ora: via sottomarina, casa corallo, numero squalo. Non puoi sbagliarti, partiamo subito, questa notte. E spicciati, che la Luna verrà a bussarti alla porta: è ancora alla ricerca degli ingredienti speciali del nostro biscotto.

15.2.13

Totale

La faccio breve, perché alle definizioni ci hanno già pensato in troppi. La tesi è che tutti hanno la loro versione d’amore. Io ce l’ho totale. L’amore totale non è sinonimo di totalizzante, ovvero non è fatto per annullare. Se fosse totalizzante entrerebbe in campo il concetto di assolutismo, di dittatura, di monopolio tra coniugi, insomma, una parte finirebbe col divorarsi l’altra. L’amore totale, invece, è totale proprio perché completa senza mangiucchiare, senza logorii, senza essere bruco nella mela.
Scontato: bisogna essere in due, due cuori veri, funzionanti, non uno che ama al posto del secondo né tanto meno uno infatuato dell’altro che non conosce il nome del primo. Le infatuazioni sono molto più che una perdita di tempo: è come se ti bucassero il serbatoio dove conservi il bene da dare al prossimo - materiale infiammabile che fa tossire se fatto fuoruscire con disattenzione. Poi quando il prossimo arriva davvero, il tuo serbatoio è vuoto, e allora il bene come glielo dai? Non so ancora se abbiano inventato dei benzinai di bene, delle pile, dei tabacchi che vendono ricariche d’amore gratis. Quindi no, le infatuazioni, i fanatismi, le venerazioni, gli invasamenti, da una certa età, sono vietati. Ammesse unicamente certe forme di stalkeraggio.

Il mio amore totale non può essere condiviso, forse nemmeno teorizzato. Alcuni non lo capiranno mai. La faccio breve e vi dico cos'è. Il mio amore totale è camminare al parco con uguale velocità di pensiero, saltando i fossi e costruendo capanne per le formiche. Il mio amore totale è diventare una persona sola appoggiando la testa sullo stesso cuscino. È riconoscere il suo calore ad occhi chiusi, anche se dista qualche centimetro di corpo dal mio. È conoscere ogni sua espressione facciale, i tic con le sopracciglia, la bocca socchiusa e le tempistiche dell'unto dei suoi capelli. È non riuscire ad immaginarsi e a definirsi senza nominarlo. È amare a distanza di mille miglia. È un vaffanculo. È bustine di t(h)e, è straccetti da mettersi addosso, pentole rovinate, pastasciutte troppo salate. È trovare gli errori di punteggiatura, le ripetizioni, le pronunce all’inglese. È sentirsi dire che ho scritto di meglio. È parlare di sex toys e perversioni di fantasia. È anche solo portargli il cornetto ai mirtilli del bar sotto casa. Se mi tolgono il mio amore totale, quindi tutto questo, è come se mi tagliassero via braccia, gambe, un pezzetto di fegato e buona parte del cervello. Non riuscirei più - in ordine - ad abbracciarlo, a rincorrere con lui i suoi desideri fulminei, a difenderlo dai nemici e a ragionare prima di giudicare.

Non sto dicendo tu sia la mia metà, ma circa un numero approssimato forse periodico tra l'un terzo e i due terzi.

Penso di avere conosciuto l'amore totale a ventidue anni. Non ho più paura di dirlo, soprattutto da quando il per sempre ha smesso di togliermi l'aria e di entrarmi nel sonno come incubo. Ora lo vivo bene, per intenderci. Lo vivo così bene che spero davvero arrivi veloce, per poi poter girarci insieme a contare gli anni e a dimenticarci di cosa ci fosse stato prima. Quando il tempo che ci unirà sarà il doppio di quello che ci divide allora potremmo davvero dire di aver raggiunto la soglia conoscitiva del sentimento. Dentro nel per sempre dalla testa ai piedi.
 
P.S.
Sì, lo so, ho scritto di meglio.

31.1.13

Bicicletta

Abbiamo pedalato tanto io e te. Abbiamo pedalato per Estati intere, fermandoci a respirare il mare, ubriache di ciò pensavamo essere salsedine, invece era felicità. Quella che si tocca con un dito al cielo e che nel cielo lascia la scia. Praticamente lassù abbiamo disegnato una mappa. Ma il tesoro ce lo siamo tenute per noi.
Avevamo due biciclette speciali io e te. Non importava se fossero rubate, in prestito o in affitto, andavano avanti e questo ci bastava. Saremmo state capaci di farle funzionare anche da bucate. Noi due insieme pedalavano così veloci da diventare volubili, aeree, fatte d'aria. E lo sanno tutti che l'aria non si afferra. Ti schiaffeggia, ti spinge, ti scompiglia i capelli fino a farti i nodi tra i pensieri. Poi se provi a mangiarla, non riesci. Eravamo aria - aria strana e inaff(id)(err)abile: non avremo più viaggiato controvento. Noi due insieme pedalavamo così veloci. Le nostre ruote giravano fino a essere come quelle girandole che si costruiscono ai bambini per spiegare i concetti dell'ottica e dei colori del visibile. Se quella girandola veniva fatta ruotare veloce, come veloce andavano io e te, si sarebbe visto bianco, tutto bianco. Pedalavamo più forte del mondo o forse eravamo noi a farlo ruotare. Pedalavamo così veloci da fare a gara con il sole e con la luce. Vincevamo. Il mondo le ruote bianche nemmeno le vedeva, vedeva solo le scintille lungo la scia: si spegnevano come miniature pirotecniche alle nostre spalle. Erano un po' come le molliche di Pollicino, ma psichedeliche, lampeggianti a breve termine. Sparivano/mo.

Sparivamo continuando a pedalare. O se non pedalavamo era per rifornirci di gelato e di caffè. Di caffè soprattutto, da sorseggiare sui balconi di ogni casa, sopra i tetti, sui gradini delle piazze che assomigliavano ad arene. A noi piaceva non essere viste tanto quanto ci piaceva guardare gli altri. Scrutare la quotidianità altrui per crearci una nostra quotidianità. Ci creavamo amicizie immaginarie, ci facevamo amici i volti. Riconoscevamo quelli che un tempo erano stati marmo e che ora sono pongo in mano alla vecchiaia. Sarebbe successo anche a noi. Allora combattevamo gli anni travestendoci: i balli in maschera erano un altro bel modo per sparire.

Pedalavamo persino mentre infilavamo i piedi nella sabbia calda; il calore ci saliva per le gambe, toccava il cuore e arrivava in gola. Potevamo sputare fuoco e accenderci una sigaretta dalla bocca talmente eravamo accese dentro. Due saltimbanchi nelle piazze che assomigliavano ad arene. Sai, mi è salito tutto adesso, il calore. Brucia. Vorrei girare gli occhi in questo tavolo e trovarti seduta lì. Saperti lì. Capace di psicanalizzarmi più di mia madre. Tu che, come una maga ambulante, negli ingredienti del gelato e nel fondo del caffè ci scorgevi il mio futuro. Guarda caso era sempre in pendant con il tuo che era sempre in pendant con la tavolozza di fantasie che ti portavi addosso che era sempre in pendant con la tua chioma. Non te l'ho mai detto, ma per me sei una di quelle persone che in vecchiaia non avrà più bisogno di tingersi. Perché il tuo volto - un tempo marmo e domani di rughe di pongo - avrà già tanto da raccontare.
Vorrei girare gli occhi in questo tavolo per vederti ridere di quella leggerezza che durava una sera e che avresti rimpianto per la settimana a venire. Anch'io ero nella tua leggerezza, quanto mi facevi girare la testa tu nessuno. Girare gli occhi e vederti stare bene, come avevi sperato per la settimana a precedere. Vorrei parlare, rovesciarti il portacenere, sorseggiare vino buono prima di dormire. Vorrei ficcarmi sotto il tuo piumone non pulito, parlare e parlare coi cuscini. Perché sono ancora convinta che i tuoi cuscini - così tanti da poter dar ciascuno un nome - ci sussurrassero nel sonno, a consigliarci i sogni.

Ma la bicicletta l'abbiamo chiusa?