Quando sono arrivata ero piccola così. Ingenua, ingenuamente spavalda. Di quella spavalderia adrenalinica da non-sono-più-una-liceale che ti fa credere di aver capito come funziona il mondo e quindi di riuscirci a correre sopra senza cadere. Poi, al primo esame, cadi. Come una pera, di cui hai persino la stessa silhouette. Poi, al secondo esame, rimedi. Ma la colpa non è mai tua, è del professore, si sa. Finché arrivi al terzo anno che non hai nemmeno fatto in tempo a goderti gli altri due, perché ti sei persa nel lamento, preferendo gli aperitivi, e allora qualche rimpianto te lo porti dentro.
Quando sono uscita ero un po' più grande di così. Ora sono in grado di andare oltre alla solita ridondante risposta: “la mia facoltà è tutta teorica, non c'è nulla di pratico”. Se volevi la pratica, cara mia, non capitavi qui. Se invece volevi imparare a dare una forma, un giudizio, un'analisi a quel contenitore poliedrico che è la moda come me l'hanno spiegata, allora sì, dovevi capitare qui.
Potrei usare una serie di metafore. La mia triennale è come un palazzo a più piani, con tante e tantissime finestrelle, da ognuna di queste la vista cambia, ma se le metti insieme il paesaggio è così bello che ti toglie il respiro. La mia triennale è una tavolozza di colori a tempera, sta a te trovare le combinazioni di nuance che si abbinano di più al tuo colorito. La mia triennale è un ricettario dai diversi e svariati ingredienti, sta a te capire quale sia la tua specialità, testando, provando e riprovando di nuovo. Vale la frase d'ogni mamma: se non assaggi, come fai già a sapere che non ti piace? La mia triennale è un puzzle interattivo o probabilmente 3D, dove ogni pezzo rimane in piedi da solo e al contempo si incastra perfetto ad un altro. La mia triennale è una cassettiera: sta a te scegliere in quale cassetto conservare i tuoi sogni.
Alla faccia di tutti coloro che continuano a lamentarsi persino in seguito al conseguimento della laurea. Io non ci credo che voi, il paesaggio, dopo tre anni, non l'abbiate nemmeno intravisto. Non ci credo che non abbiate assaggiato abbastanza, anche se solo di tutto un po'. Tantomeno che non riusciate a mettere insieme i pezzi di un puzzle 3D - sono addirittura più grandi di quelli classici; perché se non ci riuscite, questa volta, non è colpa dei professori, né dell'organizzazione universitaria e delle sue pagliuzze, ma in primis è semplicemente e soprattutto vostra. Che non avete sfruttato a dovere le opportunità offerte, le attività extradidattiche, la biblioteca. Che utilizzate internet solo per invidiare le Chanel della più bionda delle italiane, senza immergervi in altre vie di ricerca. Che siete insipide. Che siete state sedute nelle retrovie degli ultimi banchi. Che non avete mai alzato una mano durante una conferenza. Che criticate senza proporre. Che "perché studiamo questa roba?".
Io sono arrivata con una biro e sono uscita con una stilografica. Non perché non mi sia mai lamentata, anzi. Forse neppure grazie all'università, seppur essa mi facesse da culla, da sfondo paesaggistico e da cassettiera. Ma perché mi sono fatta i compiti a casa. Nessuno vi consegnerà tra le mani un lavoro bello e pronto. Come nessuno vi confezionerà mai un futuro su misura. Pertanto, un consiglio: le finestrelle non tenetele chiuse e sulla tavolozza non fate seccare i colori. Ad ogni vostro lamento, un sogno muore.