20.5.13

Vecchia mia

Non vedo l’ora di rivederti, vecchia mia. E divento una persona come un’altra nel dirti questo. Perché quando si è lontani, che sia per uno o per dieci meridiani, il centro del mondo torna ad essere la propria casa. Ed è proprio così, vecchia mia. Ma tu lo sapevi. Lo sapevi che non ti avrei mai dimenticato, che non avrei mai incontrato un tuo degno rimpiazzo. Tu che di piazze ne hai e ne hai di belle. Nessun’altra è come me, dicevi. Io facevo di tutto per non darti ragione, rinfacciandoti quanto fossi stata grigia, brumosa, in quei giorni d’inverno, quando i ragazzi non riuscivano a trovare rifugio. Lo ripetevo per farti del male e per non ammettere che in fondo, anch’io, la pensavo esattamente come te. Nessun’altra è come te, vecchia mia.


16.5.13

Fare la spesa

Immagina se ci fossimo incontrati da piccini. Mi avresti inseguito con le code di lucertole morte e saresti stato uno di quelli che nell'ora del silenzio non dormivano mai, ma disturbavano solo. Compresa me, che ero innamorata di Giammarco e annusavo i miei odori sotto le coperte dell'asilo. Immagina se tu ora fossi piccino e io grande. Ti potrei tenere in braccio e farti ridere facendo cucù. Invece adesso, per far in modo che tu rida, che tu rida di gusto, faccio più fatica. Tu che ridi con gli angeli. Però quando ci riesco mi viene voglia di darti i morsi per mangiarti, come fanno i grandi coi piccini, sì. Eppure non sono in grado di immaginare il contrario: tu grande e io piccina. Anche se sulla carta più piccina di te lo sono davvero. Carta straccia. Preferisco i tuoi straccetti, quelli che riusi fino al logorio, perché ci sei affezionato. Perché ti affezioni agli oggetti, alle cose, alle presine della cucina, agli asciugamani sbiaditi, alle tende della doccia. Mi piace guardarti quando andiamo a comprare insieme qualche nuovo ninnolo d'arredo, hai gli occhi attenti; anche se alla fine non badi mai ai colori dei soprammobili che teniamo già in casa. La casa al mare. Mi piace meno guardarti quando andiamo a comprare insieme qualcosa da prepararci per cena, ma ti guardo lo stesso. Sei così lento a scegliere, io sbuffo, ma ti guardo. E vorrei leggerti i pensieri stupidi davanti al banco dei formaggi. Io sbuffo, che non ho tanta pazienza con te, io sbuffo subito. Allora vado avanti e ti aspetto alla cassa. Ma dopo 5 minuti che mi son sembrati almeno 10, ti rivengo a cercare, perché questo è il tempo massimo in cui riesco a starti lontano. Se non ti trovo, mi spavento, ma eccoti sbucare. Eri ritornato al banco frigo e avevi messo giù uno yogurt per un altro. Dai, andiamo. La carta igienica la porto io. Hai visto come sono brava ad imbustare?

11.5.13

Ombelico

Mi hanno detto che i blog rischiano di cadere nella prolissità. E la prolissità è un po' come quell'orizzonte di mare senza scogli. Nulla si vede, nemmeno la fine. Funziona così: se possiedi un blog prolisso, stai certo che il lettore virtuale non raggiungerà mai la fine dei tuoi post. Mai. Se ti va bene, leggerà le prime tre righe. Solo le prime tre righe. Orpellose, sonore e sforzatamente accattivanti. Proprio come un occhiolino fatto da uno strabico. Se ti va benissimo, il lettore passerà dalle prime direttamente alle ultime, sorvolando il nocciolo. Chi è che di una pesca si mangia il nocciolo? Ma è quando pensi che ti sia andata benissimo che subentra il misfatto: il lettore ha scorso il tuo post fino alla fine, non per leggerla davvero, piuttosto per constatare quanto il tutto fosse prolisso, lungo e di conseguenza - pregiudizialmente - noioso. Segue la fuga dal blog, dove, se tornerà, sarà per caso o per errore. Per errore d'aver cliccato su uno di quei link con gli #hashtag simpatici che dissemini in ogni tuo vivacissimo profilo social. Lo fai apposta: utlizzi Google URL Shortener affinché l'abbreviazione incentivi la curiosità. Povero lettore, apre e NO SHORT, TOO LONG. Se ti va bene leggerà le prime tre righe. Se ti va benissimo passerà dalle prime direttamente alle ultime. Buona la pesca?

Mi hanno detto che i blog rischiano di essere ombelicali, ombelicali nel senso di lunghi come cordoni. Io ho un blog ombelicale, ma perché lo nutro dalla pancia. Ci finiscono sempre tutti i sassolini: nelle scarpe erano tanti da non starci più. E allora forse dovrei usare intestinale. Ho un blog lungo come un intestino. Solamente un po’ irritato.

3.5.13

Lo sconosciuto

Me ne stavo con uno sconosciuto a bordo di un aereo e ci stavo persino dormendo addosso. Era solo venerdì quando ci parlammo per la prima volta, al caffè letterario di Piazza Ludovico. Aveva i baffi. E, se avessero alzato di poco la luce, probabilmente qualcuno ne avrei avuto anch'io. Avevamo fatto l'amore guardandoci per tutto il pomeriggio. Poi, il mattino dopo, l'amore l'avevamo fatto davvero. Prima che si potesse accorgersi della mia ricrescita dall'ultima ceretta, avevo già prenotato il volo. Sbarcai dall'altra parte del mondo. Con lo sconosciuto. Non ebbi paura, seppur consapevole di non essere mai stata brava a improvvisare parole, a celare gli imbarazzi o a raccontarmi a mente nuda. In verità, non ero mai stata brava con gli uomini. Ma lui, lui sembrava sapesse ridere delle mie stesse cose. Avremmo potuto starcene avviluppati nel sonno per ore, schiena contro schiena, intenti a far del nostro amore una capanna. Perché la capanna c'era, lì, reale, sulla spiaggia, con le lampadine colorate appese a un filo svolazzante, il mare nero sullo sfondo e le stelle sopra il tetto a spiare le mie voglie. In quel gioco di luci e ombre avevo imparato a memoria la mappa del suo corpo - non c'era oceano più invitante - mi piacevano i suoi nei, il suo incavo del collo - mi ci tuffavo dentro. Felice. Ci siamo sposati così, coi piedi nella sabbia, a Chennai, in India, davanti a Padre Lawrence. Lo sconosciuto, oggi, è ancora mio marito.