25.11.10

Ma ho smesso di chiedermi

Lui ogni mercoledì mi ripete che viviamo in un mondo di pixel. Dice che ci muoviamo all’interno di un reticolato digitale come quadratini optical con gambe, sottili fibre pulsanti, dalle doppie facce e dal cuore intermittente. On - off. Ci siamo fatti bravi ad aggiustare arterie come se fossero carburatori, in una questione di fili rossi, tasti più spinti, sezioni rese combacianti a far funzionare l’intero circuito. Ma ho smesso di chiedermi chi ci sia a far partire la corrente, chi siano generatore e scheda madre. Oggi si può tecnologizzare e trapiantare qualsiasi cosa. C’è perfino chi il cuore lo codifica, lo congela e lo presta lasciandolo battere nel petto di un altro: come se in questa vita ibridata non morisse nessuno.
Lui ogni mercoledì ribadisce che siamo parcellizzati, frammentati. Non sentiremo più parlare di persone tutte d’un pezzo, perché saremo in continua composizione; ce ne vivremo per sempre tessendo ragnatele di complicazioni organiche essendo ragnatele noi stessi. Ma ho smesso di chiedermi chi siano gli aracnidi, le mosche, i moscerini.
Questo ultimo mercoledì lui ha aggiunto che arriveremo a nascere con il telefonino incorporato nel polso: se i numeri ci basterà pensarli con un battito di ciglia, per le telefonate ci basterà accendere le lampadine. Non sentiremo più parlare di persone che parlano da sole, perché le nostre bocche saranno un po’ auricolari, un po’ ricevitori. Forse non è una visione così lontana, forse un po’ di ragione lui ce l’ha, qui è da parecchio che abbiamo solo iPod, iPad, iPhone. Ma ho smesso di chiedermi iCosa diventeremo.

Io che non son niente rispetto a lui, che di cosmo ho conosciuto ben poco, se non la mera etimologia, mi spavento nel definirmi una tra tante figure sfuocate. Mi spaventa non poterci vedere chiaro, ammettere che nel caos le sgranature non possono essere messe a fuoco. Allora se veramente siamo pixel, e lo siamo, non tocca che arrendermi. Però perché proprio pixel? Io preferisco ancora i granelli di sabbia, i chicchi di mais, i semi di riso e le briciole del Mulino Bianco. Perché non possiamo essere puzzles e poi magari anche pixel? Io dico che siamo puzzles. Il mio con pazienza sta provando a costruire un’immagine: certo, per ora non ho unito molti pezzi, ne ho messi insieme diciannove, ma non sono nemmeno a metà dell’opera. L’ultimo tassello l’ho aggiunto giorni fa, quando sono scesa da un treno e la prima cosa che mi è stata regalata era una lente d’ingrandimento. Non c’era più nulla a misura d’uomo, lo spazio era quadruplicato e, come è solito succedere, in quello spazio così grande sono rimpicciolita a microbo. Poi t’abitui, semplice, t'abitui non appena capisci che da microbo puoi vedere gli altri senza che gli altri ti vedano. Così sono stata attenta a non farmi calpestare: piccolo neutrone in cerca di una carica. Beh, quella carica è arrivata, per fortuna positiva. Il microbo ha inglobato altri microbi, gli sono piaciuti e ne vorrebbe ancora. Li vorrebbe per evolvere a cellula. Perché quando stai in uno spazio quadruplicato fai presto a voler crescere più veloce anche tu. Sarà per questo che nella M. metropoli ci si sente un po’ tutti più grandiosi. Ma guai sentirsi grande prima del tempo. Affrettare non è altro che inserire la tessera sbagliata nel puzzle, incastrarla per forza seppur non combaci. Chissà tra qualche anno a che punto sarò: voglio completare il puzzle senza aver perso alcun pezzo per strada.


Grazie a F. e a D.

22.11.10

Perchè sì/è un casino.

Quando si lascia qualcosa d’importante, tutti tendiamo a tornare indietro. La difficoltà sta nel capire se quel qualcosa fosse/era/è/sia ancora importante. Penso ne valga comunque la pena, davvero, sbattere la testa a volte conviene; ti scuoti un po’, provi: se il muro è duro male, se il muro crolla bene. Certo ci sono più fattori. Dipende anche dalla conformazione della tua testa. Da quanto è piena, se è resistente oppure marcia. Perché sì, spesso sui pensieri fissi al passato uno ci marcia sopra, è noto, si va avanti con lo sguardo voltato. Succede nel momento in cui i tempi del processo di analisi e autoanalisi vanno per le lunghe, entrando in automatico nella fase di putrefazione/afflizione/autodemolizione e salutando definitivamente la tua dignità dopo aver già tentato di mandarla a benedire. Ma si sa che il gioco più bello è quello più corto: pertanto, quando sogni all’infinito cose passate che mai più ci saranno, finisci che non sai nemmeno che cosa stai sognando, sogni e basta, confondi piccole capanne per luminosi castelli, non sai più chi sei/non vuoi più essere così/vivi la vita di un altro. Perché sì, commetti cose che se fossi ancora tu - il tu sano, non marcio - non t’appartengono, se fossi ancora tu a guardarti da fuori, non ti riconosceresti. Non sei tu, il processo di autoanalisi non può più continuare. Marcisci.
È un casino.

Anche perché per la rinascita, se mai avverrà, ci vorrà il doppio di fatica e di tempo. Quindi è vantaggioso tagliare i tempi fin da prima. I tempi di autoanalisi, sempre quelli intendo. Se capisci appena riesci il tuo errore, non occorre stare lì a rincitrullirti e cercare domande abbinando risposte per supplire scusanti. Aspettando chi/come/quanto? Fai retromarcia prima che qualcuno di troppo se ne accorga. Fai retromarcia, attento al muro alle spalle - finché non ci sbatti non sai se crollerà veramente - poi tieni la testa dritta come la tua strada e impiega poche manovre, perché sì, le cose troppo complicate non fanno che complicare ciò che hai reso, tu da solo, col tuo errore, già abbastanza complicato; fanne poche, almeno non sbagli nuovamente nell’andare avanti e indietro a vuoto. Pum, muro crollato. Fai salire quel qualcosa d’importante che avevi lasciato, se t’accorgi che non era tale hai più di un finestrino, più di una portiera. Diciamocelo, non sarà meglio una capanna reale che un castello sognato? È intima il giusto per farci entrare chi vuoi.