22.6.10

Camicie

Alcuni nascono col dono di saper distinguere, di sapere ciò che ti può far stare bene veramente. Altri, invece, fanno più fatica, amano portare camice aderenti, e così, lì, tra i bottoni, è ovvio che tutto risalta, anche il cuore.
Ma quegli alcuni, i primi, le camicie le portano sfiancate, leggere, perché per loro l’amore è proprio come una camicia stropicciata, ti abbraccia comunque e non invade; non gli importa quello che si prende o che lascerà, vivono d’approssimazioni, al fine di svincolare da quelle complicazioni che, a parer loro, rimarranno altre e degli altri. Gli alcuni sono abili nella scissione, che non vuol dire per forza stare divisi a metà, anzi, loro si sentono vincenti, tutti d‘un pezzo; filtrano col colino in mano, fanno scivolare l’acqua distillata che gli altri berrebbero come pura sorgente, mentre tengono per sé le tossine, le cose più sporche, aprendosi i bottoni della camicia per farci passare l’aria: è fresca come quella che si respira in cima al mondo.
Gli altri, i secondi, sudano già nel trovarla, la camicia più adatta, del colore che dona, ma una volta comprata in boutique, sudano ancora; la conservano con cura, talmente pulita da sembrare intoccabile, e a volte ci ricamano sopra le proprie iniziali, è la manifestazione di un possesso, e sudano. Invece, gli alcuni, si accontentano di cercare nella bancarella dell’usato - che non ha niente da invidiare alla boutique - dove tutto è pronto all’uso, dove se una cosa non va, la si può sempre gettare; ci sono meno sensi di colpa e più curiosità, più gusto, perché chissà da dove arriva quella camicetta, chissà chi l’ha messa, chi l’ha provata, chi ci ha sudato, chissà che sapore ha.
Fino a qui, fin quando gli alcuni e gli altri non s’incontrano, l’economia delle camicie gira senza intoppi. Poi capiterà che gli alcuni un giorno si sveglieranno con una camicia indosso che non è la loro, bensì quella degli altri, non si riconosceranno, i ruoli s’invertiranno come una camicia infilata alla rovescia, di fretta, nel risveglio. Del resto si sa che starsene in cima al mondo aumenta il rischio di una bella caduta.

19.6.10

Insofferenza

Non è che sto male o bene o benino, è proprio che non so come stare. Ovunque mi metti, io non sto. Non è questione di essere in bilico, né di stanchezza o stasi, d’indecisione o precarietà, sarebbero tutte situazioni ben definibili, mentre adesso una situazione definibile non ce l’ho, ma se domani mattina arrivasse - perché posso pure aspettare fino a domani mattina, basta che non sia invano - mi darebbe sollievo. E se arriva assieme a una granita all’anice ancora meglio. Invece io, che ovunque mi metti non sto, non mi trovo in nessuna situazione. Voi direte: dai, è normale, capita il momento di “vuoto”. Di vuoto? Sarà perché a volte credo che mi manchi l’aria, attorno, credo di essere sotto vuoto, appunto; ma poi mi tocco il respiro ed è tutto regolare, come la crescita dei peli nelle gambe. Allora cos’è? Vuoto interiore? Figurati, sono così piena d’insofferenza che anche nel silenzio ne sento il rumore.
Ecco, forse ci sono, è un problema di luce, di obbiettivo e messa a fuoco, devo smetterla di guardare i dettagli anziché i grandi fasci. E' sempre stato un mio difetto, non ci riesco e non ci riuscirò mai a tralasciare o a sorvolare, a incrociare persone senza vederle. È un problema sì di luce, ma anche di luci, plurale, perché una luce in più non sarebbe mica una cattiva idea; non chiedo grandi cose, non pretendo stelle cadenti, ma solo un bagliore in più, più forte. Non per illuminare, non saprei nemmeno chi/cosa/quando/dove/perché illuminare, ma solo una lucina in più, magari da seguire, da non spegnere mai, neppure la sera, sul comodino. E se invece la mia lucciola ce l’avessi già? Potrebbe essere lontana, io non la vedrei. Potrebbe essere vicina, mi accecherebbe, non la vedrei comunque. Chissà com’è, se è una luce solida o se è sostanza liquida, come l’amore, che subisce i cambiamenti di stato. Che cosa complessa. Se fosse solida di sicuro non mi scapperebbe di mano, quindi sono quasi certa si tratti di materia liquida, la mia lucciola, perché se per caso mi era sembrato di averla afferrata tra le mani, è scivolata via: un olio di candela. Una luce a intermittenza insomma, che va e viene, che non sai neppure quando arriverà, come le nuove estati, che vanno di moda se si fanno aspettare. Uffa, io voglio la mia luce al neon, che con il neon non soffrirebbe di vuoto interiore. Le vendono? Una luce al neon non avrebbe nessuna pretesa, se ne starebbe bene tra le mie mani, senza scivolare via, senza cambiamenti di stato, perché io l’alimenterei “per sempre“, che è sinonimo di “ogni giorno“. La luce al neon, come me e assieme a me, non tralascerebbe, incrocerebbe le persone, non per guardarle, ma per vederle. Voglio una luce al neon, sì, la voglio perfino tossica, così avrei anch’io la mia dipendenza su cui poter sfogare la mia insofferenza, diversa dalle sigarette e senza tette. Esattamente io voglio un tubo al neon, capiamoci. I tubi dove li metti, stanno, li incastri in situazioni definibili e anch’io con un tubo potrei entrare finalmente e una volta per tutte in una posizione, ops situazione, definibile.

9.6.10

Il Courier New si crede suo erede, illuso.

Ho vent’anni e di macchine da scrivere vere ne ho toccate ben poche, se non una. Ci incastravo i fogli e mi sporcavo le mani, o forse erano le mani che finivano a incastrarsi lì dentro. Già, allora l’inchiostro del rullo vantava ancora il suo primato, per me è venuto prima dell’odore della benzina fresca, del muro fresco, della candeggina e di Flower By Kenzo, per me c’era solo l’inchiostro del rullo. Era nero più dell’unto di una bicicletta, magari meno della pece (e chi lo sapeva?), però assomigliava a quello del polipo che papà puliva il venerdì in cucina, nel lavello: cosa se ne faceva un polipo dell’inchiostro, se non sapeva scrivere?
L’inchiostro della macchina da scrivere di casa, grigia e a ditate nere, giocava coi capricci e le fantasie di una bambina. Il suo aroma buono inondava il mobile delle foto, quello sotto, dalle ante storte e i pomelli allentati - sembrava di stare in ufficio da mamma. Lei sì che lavorava con una macchina da scrivere bella, era lunga come la scrivania e poi era elettrica. Eppure la mamma, che scriveva con tutte le dita, guardando il foglio e mai a dove stava battendo - perché nella sua scuola aveva imparato così - non tornava a casa con le mani sporche d’inchiostro. Non sapeva cosa si stava perdendo.
Spingevo le lettere nell’ordine del mio alfabeto, le parole avevano tutte il loro senso, senz’altro il più giusto. Scrivevo come nella sigla della Fletcher, lei sì che era una donna giusta. Lei ora probabilmente saprebbe dirmi dov’è sparita la mia macchina. Non ce l'avranno mica la cara Susi e il caro Paul?

7.6.10

SI (con l'accento)

Avevo la schiena spezzata, proprio io che della fatica conosco solo il nome. Il sudore vero non so davvero cosa sia e credo che mai potrò saperlo veramente: non son solita a rimboccarmi le maniche, non tengo pesi tra le braccia né mattoni in bilico sul capo; allora saranno stati i sassi ad avermela spezzata, quelli che si tengono sulla coscienza, nello stomaco, proprio io che di sasso gioco ad avere solo il cuore. Invece piegata in due me ne stavo, come se non potessi più vedere il cielo. Poi ho capito: era un inchino. Un inchino dovuto e che devo a chi continua a permettere il mio volo, un inchino che non viene da sé, quasi forzato alla mia debolezza nel ringraziare. Ed è tutto per voi, che avete permesso di farmi sentire di nuovo leggera; oggi ho potuto volare da ferma e indicare col dito il centro dell‘universo, forse era proprio lì, nascosto sotto la sabbia o dietro alle nuvole. Forse era proprio lì: accanto a me.

I giorni no non piacciono a nessuno, eppure ci sono. È come pensare a quella vecchia storia: racconta che senza il Male il Bene non potrebbe esistere, lo stesso vale per i giorni, i sì non esisterebbero senza i no, né l’oggi senza l’ieri. Sembra la legge dei contrari, vecchia storia.
Oggi è un giorno sì, un sì netto, sicuro, che s'accenta dei vostri sorrisi. Oggi sa un bel po’ come quid sit futurm cras fuge quaerere, il presente da cui per una volta non hai voglia di scappare. Oggi è un giorno sì che ha tracciato le sue impronte più forte, più giù, in profondità, cosicché nessun mare potrà mai cancellarle.