29.12.12

AAA

Ho il cervello che assomiglia a una spugna marina, dove ci si ficcano dentro solo i pesci più piccoli e sottili, quelli che guizzano veloci, che scattano, aerodinamici, all’ispessirsi della corrente. E dentro la spugna marina rimangono nascosti, impauriti dal buio del mare. Fuori ci sono gli squali.
Ho il cervello che assomiglia a un flipper stanco, dove le luci sono spente e i pulsanti non funzionano più. I miei pensieri sono come le sue palline: dopo il primo lancio, rimbalzano fiacchi, in attesa che i buchi neri se li ingoino. In un solo boccone, senza un solo colpo di tosse. Chissà dove finiscono, i miei pensieri, forse nel buio e forse nel buio presto muoiono. C’è chi muore davvero per la paura del buio.
Ho bisogno del tuo cervello e questo non implica che in due ne facciamo uno. Ho bisogno del tuo cervello perché è l’unico in grado di fare l’amore con il mio. Ho l’immagine dei nostri cervelli tenuti sottovuoto, l’uno di fronte all’altro, in due bacheche separate nella stessa sala di un museo. Rimangono illuminati combattendo quella corta ma invalicabile distanza con il desiderio di chi si tocca guardandosi.

Ho bisogno del tuo cervello e di tutto il resto del tuo corpo. Vienimi a prendere.

Vienimi a prendere ti prego. Tutto è pronto perché nessuno questa volta ci sta aspettando. Vienimi a prendere e non lasciarmi, non lasciare la mia mano nemmeno quando te lo dirò io, nemmeno per sogno o per scherzo, nemmeno quando saremo solo io e te, anche se lo saremo sempre. Vienimi a prendere che ce ne andiamo via: saliamo sulla mongolfiera che tengo sotto al letto e che ho conservato fino ad oggi perché sapevo che questo momento sarebbe arrivato. Raggiungeremo la luna. Faremo bungee jumping dalle nuvole, balzeremo da una stella all'altra come fossero i guadi di un fiume. Poi ci costruiremo una coda di pavone coi palloncini colorati e le lanterne celesti, e ci muoveremo goffi ma felici, non avremo mai paura. Sarà carnevale tutto l'anno, quando ne avremo voglia. 
Correremo sulle spiagge a raccogliere conchiglie. Innalzeremo castelli di sabbia, castelli d'aria e di principi. Saranno indistruttibili perché li avremmo fatti noi, che insieme siamo già indistruttibili di nostro. Conteremo le insegne dei bar, di quelli che stanno aperti la notte, e con le lettere giocheremo a formare rime, anagrammi, poesie. Manderemo tutti in confusione, berremo il neon delle luci e brilleremo ancora più forte. Faremo tanti girotondi, ci abbracceremo sui tetti dei freccia rossa, ci sposteremo da un campanile all'altro come si fa con gli alberi nei parchi di divertimento, sospesi, lasciando dietro di noi una scia di mille strass. Navigheremo nell'oceano, sconfiggeremo le onde con una delle mie barchette di carta, voleremo in sella a unicorni e aquile reali, tireremo le cerbottane a tutti quegli squali. E quando saremo stanchi dormiremo schiena contro schiena, svegliandoci in un fuso orario che ancora non esiste. In uno spazio di tempo celato, dove infilarci per rimanere invisibili, facendo i dispetti ai passanti impettiti e rubandogli le monetine dalle tasche per darle all'amico Jhonny. A volte spediremo cartoline ai nostri cari, per rassicurarli, per dirgli che ci amiamo, goffi ma felici. Spediremo cartoline sbagliate anche a chi ci vuole male, per depistare, per cambiare le carte del memory. Ma non ce ne sarà davvero bisogno, perché saremo una coppia di uguali tra gli uguali capace di arrivare così in alto che nessuno ci potrà mai afferrare. 

23.12.12

Portaspilli

Il cuore è un portaspilli: in un istante si buca, ma mai si affloscia. Il mio fa il suo dovere, se ne sta al suo posto, nonostante i forellini e tutti quegli spilli cattivi che, come freccette di un tiro al bersaglio, l'hanno colpito. Probabilmente mai al centro, probabilmente mai nel suo punto più delicato, dove ci hanno cucito sopra la scritta off in rilievo, alla nascita, con un ago di inchiostro simpatico. Non la puoi scorgere sempre, ma solo quei giorni in cui sei nudo - più nudo - davanti allo specchio e la luce ti filtra da dietro.

Gli spilli che hanno forato il mio cuore sono sottilissimi. Ti scivolano tra le dita che ti pungi e nemmeno te n'accorgi. Ti si conficcano con fare impercettibile, silenziosi. Il primo fastidio quasi non lo si avverte, perché le fitte vere arrivano dopo, quando ad ogni colpo di tosse, risuonano nel petto i sibili di un vento freddo, metallico. Ed è tardi.
Gli spilli sono sottilissimi e leggeri, si adagiano sul fondo, piano piano, come fossero piume in balia dell'aria, sparendo per un po', attutiti e avvolti dall'ovatta. Poi, nella notte in cui ti giri e rigiri più del solito, lo spillo torna a galla. Gli scorgi la testa. Allora lavori con le unghie e lo ritiri fuori e ti viene in mente perché fosse proprio lì, dimenticato, nascosto bene sotto la bambagia fatta di ricordi belli e soffice felicità. Stai sicuro che in quella notte non t'addormenterai. Assieme all'ago riemergeranno tutti i pensieri che da tempo tenevi accumulati tra la pancia e il cuore, in un altro posto che nessuno ha mai trovato sulla mappa dell'anatomia. Pensi a chi ce l'aveva messo, a cosa ti aveva fatto. Del male, indubbiamente, ma mai abbastanza per dirgli ciao, ciao davvero.

Gli spilli nel cuore sono dei promemoria, degli appunti a rilascio prolungato, efficaci sulla distanza, tempratori di pazienza. Piccole bandierine aguzze, cartellini d'ammonizione. Dei lasciapassare che prima o poi, però, non ti lasceranno passare più, perché ti ho lasciato passare già troppe volte e troppo facilmente, senza permettermi di chiedere nulla in cambio. Non ti lascerò passare più, ti lascerò e basta. Perché se ti ammonisco una, due, tre, quattro, cinque, dieci, venti volte, alla trentesima mi ritrovo con trenta spilli in un unico cuore. Un unico cuore che diventa un unicum, una palla di riccio di ferro da vantare allo show dei record. Non potrei più avvicinarmi a qualsiasi calamita che mi si squarcerebbe il petto in due. Non sarei più capace di entrare in banca o uscire da un negozio senza far dedurre di averci rubato. "No, scusate, è il mio cuore, è il mio cuore che è in allarme."

Quindi sai che faccio? Mi giro e rigiro, faccio proprio le capriole, i salti, i rimbalzi, così gli spilli che mi hai conficcato qui, con il tuo arciere di gesti promessi e mai avuti, fuoriusciranno tutti. Otterrò un esercito di spilli da lanciarti addosso. Verrai ucciso in un solo colpo. Doloroso tutte le punture di veleno che mi hai causato, tutti i colpi di tosse incurabile che ho avuto. Usciti gli aghi, ucciso te, il mio cuore smetterà di funzionare da portaspilli. Ma tornerà ad essere un bellissimo portagioie.


18.8.12

Simbiosi

Mi accorgo quando non ci sei, perché nelle mie scarpe non c’è nemmeno un sassolino. Sei sempre stato così piacevolmente fastidioso.

Ho creduto spesso che i rapporti simbiotici non portassero da nessuna parte, malati, ossessivi, asfissianti. Però, dopo l’adolescenza, non ne avevo mai avuto veramente uno; del resto pensavo di avere ben capito cosa significasse mantenere un’amicizia: un gioco di dato e ricevuto, dove lasciare qualche spazio libero l’uno all’altro, per riapparire nel momento del bisogno.

Poi tu. Lo stupratore del mio cervello, lo sturatore dei miei conduttori di fantasia: si erano otturati da soli perché rimasti abbandonati da tempo, tali e quali ai buchi delle orecchie, che si richiudono quando non metti gli orecchini per un po'. Ancora oggi non so come tu ci sia riuscito. Forse con i ruzzoloni di parole e le tante chiacchiere prima di dormire. Forse eravamo due estranei legati insieme dall’intimità inventata dal viaggio. Perché sì, abbiamo viaggiato parecchio insieme. Per chi non lo sapesse, i conduttori della fantasia, una volta aperti, funzionano da scivoli, da girandole, da aquiloni, altalene, onde, nuvole, biciclette, macchine del tempo. Abbiamo viaggiato sospesi per un anno intero, senza fermarci, e nessuno può sapere cosa ci sia fantasiosamente capitato in quel volo al centro della terra. Con te ero al riparo dal desiderio di essere altrove. Con te manovravo le lancette dell’orologio a piacimento, senza badare a conseguenze e definizioni. Con te scrivevo i romanzi.

Abbiamo viaggiato senza fermarci fino al momento dei saluti. I rapporti simbiotici sono così, non durano, il gioco del dare e ricevere non vale, gli spazi liberi non esistono, anzi, si accavallano. Ci siamo scambiati talmente tante cose che non sapevamo più quali fossero le mie e le tue. Nessuno ha pianto. Eppure, nonostante i saluti, oggi è come se mi mancasse l’elastico per i capelli, il fazzoletto nella borsa, la penna nel taschino, l’orlo nei pantaloni; è come essermi dimenticata a casa lo spazzolino o il rossetto più rosso. Tu che mi hai insegnato che senza lo spazzolino, non puoi andare da nessuna parte, perché dove vuoi andare con un sorriso spento e una bocca scarna? Non eri un accessorio, eri ciò che mi faceva sentire sicura, fiera, spavalda.

Nulla è un regalo, tutto è in prestito. E tu lo sai, non hai il senso dell’attaccamento eterno alle cose. E alle persone. Vi attaccate a volte, ma quando sono (persone amate e luoghi) proprio lontane, irraggiungibili, escluse dal rischio di esserci davvero. 

4.8.12

Fili


Ognuno di noi ha dei fili. Vanno dalla testa ai piedi, didentro, come tante corde sottili che conteniamo per essere capaci di vibrare. Per sentirci un po’ arpe, un po’ violini, chitarre o pianoforti, con spartiti che suonano le stonature dei nostri pensieri. Ma più fili conteniamo, più armonie sarà facile creare.

Sono gli stessi fili che ci rendono marionette delle nostre emozioni, che ci manovrano da lassù, facendoci inscenare un teatrino anche quando non lo vorremmo mai. È strano quanto ci possano governare e, allo stesso tempo, quanto noi dobbiamo a loro. Eppure, più cercheremo di divincolarci, di sfuggire alle briglie, di ritornarcene dritti, in piedi e inflessibili, più le emozioni non ci lasceranno, per poi prendersi gioco di noi: maneggeranno i fili fino a farli aggrovigliare, tant'è che, a spettacolo finito, ne troveremo qualcuno già spezzato e ce lo porteremo rotto, didentro, almeno per un po’.

È la metafora per dirti che, quando ti sono vicino, mi succede l’opposto. Mi accarezza la sensazione di benessere vero: i miei fili si rilassano insieme, si pettinano all’unisono, senza che nessuno se ne stia fuori posto o si svegli scordato. I miei fili, accanto ai tuoi - vibratori di meraviglie, inarrestabili, punzecchianti, perché tranquillo non ci sai stare - raggiungono la distensione totale. Sembra un paradosso, ma è così. I miei fili, accanto ai tuoi, non emettono suono che non sia una ninna nanna: ti aggiusto quelli spezzati, piano, che non te ne accorgi, mentre appoggi la testa sul cuscino, la porzione di assoluto a portata di faccia che ti regalo persino tutte le volte che non vuoi.

Penso di essere appesa a un tuo filo.

12.6.12

Mani di Fata


La chiamavano Mani di Fata, ma nessuno era mai riuscito a scoprire quale fosse il suo segreto. Viveva in un vecchio tronco di quercia, rattoppato di foglie e di piume, in quel bosco di laggiù, dove le cime degli alberi solleticano il cielo e gli animali parlano ai fiori e i fiori agli animali. Sopra il tetto, uno strato d’erba sottile, alla finestra, deliziose lanterne di lucciola: si accendevano al calare del buio, fedeli compagne di gufi e civette, facendo a gara per chi brillasse di più, con Venere basso all’orizzonte, che di una stella era soltanto un’illusione.

Ogni giorno, a metà pomeriggio, Mani di Fata dava inizio al suo rito prodigioso, un rito dolce e buono: dalle fessure del suo tronco si ergeva un vortice profumato di spezie, cioccolato, zenzero e cannella; l’aroma di caffè a mischiarsi con l’odore del muschio bagnato, l’aria a colorarsi di mille sapori. Mandarini, noci, nocciole e biscotti, sembravano fondersi in un’unica nuvola, friabile, come appena sfornata, forse turchese o forse rosa: piovevano gocciole di Primavera.

Mani di Fata cucinava, cucinava prelibatezze per tutto il bosco e le sue creature. Costruiva sgabelli con radici di liquirizia, imbandiva tavoli di fiocchi, pigne e pinoli. Su un ramo, esponeva un’ampia scelta tra infusi di coccole, camomille del buonumore e tisane scalda-cuore. C’erano davvero bustine di tè per tutti i gusti. I sorbetti di bacche erano poi serviti nei gusci vuoti di chiocciole e lumache, mentre da una fontana di ciottoli zampillava il liquore della felicità. Ne si riempivano i bicchieri, stando attenti, però, a non ubriacarsi di troppi sorrisi. Ogni giorno, a metà pomeriggio, il tronco di quercia di Mani di Fata si trasformava così in una vera e propria mensa, una mensa per animaletti, gnomi e farfalle, fatta di sogni di zucchero e desideri tostati. Avremmo potuto cibarci d'etere caramellato per alimentare all'infinito le nostre fantasie.

Ma Mani di Fata come ci riusciva? Come faceva ogni giorno, a metà pomeriggio, a rimettere in scena quella magica mensa? Le bastavano davvero solo qualche ingrediente di qualche ricetta speciale? No, Mani di Fata non seguiva ricettari, non utilizzava ingredienti, né coltelli o frullatori, perché Mani di Fata non era una donna, tantomeno una fata. Non era neppure una dea, una strega o un’indovina. Mani di Fata era un bel paio di guanti, lisci, caldi e delicati. Guanti con un respiro, danzanti, che ballavano la musica delle nostre emozioni. Guanti con un segreto, invisibili, che contenevano tutto l'occorrente per fare di quel bosco il migliore dei mondi possibili.

11.6.12

Ti ricordi quante bugie ti ho detto?


Fin dove riesco a ricordare, mio padre mi diceva sempre che un giorno mi avrebbe scritto una lettera molto speciale. Però non mi ha mai detto di cosa avrebbe parlato. Io cercavo continuamente di indovinare quale intimità avremmo un giorno condiviso, quale mistero, quale segreto di famiglia mi sarebbe stato rivelato. Lo so quello che avrei voluto leggere in quella lettera. Speravo che mi dicesse dove aveva nascosto il suo affetto. Ma poi egli morì e la lettera non arrivò mai. E io non trovai mai il luogo dove aveva nascosto il suo amore. (D. M.)

Ti ricordi quante volte ti ho chiesto la storia del tuo dito senza falangetta? E quante volte tu me l’hai raccontata? Ti ricordi quando me ne stavo con te sul divano, la sera, prima di cena, rannicchiato dietro la tua schiena? Ci appoggiavo il mio orecchio e il mio orecchio diventava subito uno stetoscopio: ascoltavo il tuo cuore pompare più veloce del mio - che dal polso non lo sentivo mai - ma forse era più veloce perché tu eri più grande. Così grande che il mio piede stava tre volte nelle tue pantofole. Ti ricordi che mi sgridavi se non mi soffiavo il naso? Se ci infilavo le dita per trovare i mostri con cui giocare, se smangiucchiavo i fazzoletti sporchi? Ti ricordi il filmino che nevica e sono in braccio alla mamma? Il filmino che grandina forte e piango e mio fratello mi insulta perché piango e tu dici che ho ragione perché le piantagioni se ne stanno andando? Il filmino dove ho la varicella e alzo la maglietta per farmi contare ogni macchia? Il filmino dove ripeto a pappagallo l’audiocassetta di Pollicino per imitare mio fratello? Il filmino dove avrò otto mesi e sto a gattoni sul tappeto della sala e non voglio darti la pallina di gomma che tengo in mano? Quanto ci abbiamo riso? Ero già un caparbio. Ti ricordi tutte le volte che ho tirato fuori i volumi vecchi dell’enciclopedia, scarabocchiandoci dentro o strappando pagine qua e là? Mi piaceva il volume con le filastrocche, con le istruzioni per gli origami e i passatempi per noi bambini. Perché l’abbiamo buttato via? Eppure in soffitta teniamo inscatolati tanti oggetti che sappiamo non ci serviranno più, tanto valeva tenere pure l’enciclopedia d’antiquariato. O la lampada bianca con le frange o la radio a valvole di quando la mamma era giovane, sarebbero stati dei bellissimi soprammobili, ce li avrebbero invidiati. Ma non possiamo tenere sempre tutto, poi ci cade il tetto in testa, dicevi tu. Ti ricordi il mare a Gabicce? La mia collezione di formine? Ne avevamo un sacco enorme. Facevo i castelli e in acqua ci andavo poco perché avevo paura e se ci andavo era coi braccioli e assieme a te. Che ti guardavo quando facevi le tue nuotate fino agli scogli, solamente a dorso. Ti ricordi Venezia? Tutta la giornata in spalla a te? Ti ricordi la Sardegna? Le passeggiate in montagna? La Puglia? La Calabria? Ti ricordi quanti coni gelato al cioccolato sulle mie magliette? Quanto burro e zucchero nei panini al latte della colazione? Quanti libri nel mio zaino di scuola? Pesava più di me. Ti rovini la schiena, dicevi tu. Ti ricordi i miei problemi di geometria? Ti ricordi quante case ho disegnato, quante case ho disegnato scopiazzando dalle tue riviste, quante case ho disegnato per noi? Ti ricordi quante volte mi hai accompagnato a ballare di domenica pomeriggio, poi il sabato sera, poi sia il sabato sera che la domenica pomeriggio? Ti ricordi quante bugie ti ho detto? Ti ricordi i colloqui per i genitori a scuola? Ti ricordi quante bugie ti ho detto? Ti ricordi che facevamo a gara su chi finiva prima i cappellacci della nonna? Alla zucca, i miei preferiti, venivano appena dopo la pizza fatta in casa e gli spiedini di gamberi che cucinavi il venerdì. Ti ricordi che stavo troppo vicino al camino? Ti s’infiamma la faccia, dicevi tu. Ti ricordi quanti computer si sono rotti? Quante bugie mi hai detto, dicevi tu. Ti ricordi che volevo diventare, in ordine, astronauta, vigile del fuoco, architetto, professore di matematica, guardia forestale? Anche a te sarebbe piaciuto fare la guardia forestale, mi ricordo. Ti ricordi quando avevamo spostato i letti con la testa a nord? Così avremmo dormito meglio, sotto l’energia positiva del feng shui. Ho creduto per anni che fosse un Dio, questo feng shui. Ti ricordi che andavamo in campagna da Giorgio a raccogliere le pesche? Ti ricordi quanto erano buone? Tornavamo completamente zozzi, ma tu rimanevi il mio modello di rettitudine, riuscivi a conservare il tuo fair play se la mamma si arrabbiava. Ti ricordi quando ho preso la patente e che dopo un anno avevo già distrutto l'auto? L'importante è che io fossi rimasto intero, integro e intatto? No? Ti ricordi quante bugie ti ho detto? Non scuotere la testa. Ti ricordi quando ti ho regalato il cellulare? Ad un tratto mi sembrava che non avessi mai compiuto sessant'anni, ma probabilmente tre volte venti. Ti ricordi che praticavi giardinaggio, che facevi crescere quei bei fiori gialli, che staccavi le melagrane? Ti ricordi che sapevi riconoscere gli alberi dalle loro foglie? Gli uccelli dal loro canto? Ti ricordi il nostro gatto rosso? Ti ricordi il tuo montone che ora mi metto io? Ti ricordi il periodo dell’acquario coi pesci? E i gamberoni pescati nel canale? L’oroscopo cinese? I libri dei sogni? Te li ricordi i tuoi sogni papà?

Lo sorpresi alle 5 di mattina, a guardare un programma su Rete 4, di quelli che non ha mai guardato in vita sua e gli chiesi “perché guardi questo programma che non ti piace?” Perché non approfitti per questo momento di pace per finire il modellino - dato che ti manca veramente poco - o per stampare altre foto della mamma, o per lavorare un po’ ai filmini - metterli tutti su dvd - per scrivere, o per fare una delle tante cose che ti piace fare? “Tommaso, io guardo questi programmi di merda per illudermi che la vita sia davvero così misera; che essa non sia amore e bellezza, ingegno, sfide, conquiste, natura e mare e vento e barche a vela, ma una squallida faccenda di rancori, pettegolezzi, paura e puzza di chiuso, come la riducono qua. Così, capisci, mi viene più naturale lasciarla”.

Ciao papà, scusa per le bugie.
Tommaso.