29.6.13

Particelle infenitesimali

Dovrei leggere di più, dovrei leggere tutti i libri che non ho mai letto e che mai leggerò, quelli che ho già letto rileggerli di nuovo, quelli lasciati a metà leggerne l'altra metà, per poi rileggerli alla rovescia, una seconda volta, dalla fine all'inizio, e scoprire che l’inizio è stato cambiato. Dovrei leggere di più, persino quei libretti che ti compri sempre tu, che per me sono storielle, robetta, ma se rifletto, mi dico, che diavolo posso saperne? Io che dovrei leggere di più e tu che leggi più di me.
Dovrei leggere tutti i libri di tutte le biblioteche di tutto l'universo, quelli che sono stati regalati, bruciati, dimenticati, nascosti, rubati, prestati e mai riavuti. Ma per fortuna, nell'universo, nulla va mai perduto, tantomeno i libri, perché le cose perse in Terra le ritrovi sulla Luna. Ed è là che andrò, quando vorrò leggere in pace, tra le stelle uguali a lampadine da comò, che si accendono e si spengono ad ogni pagina sfogliata.

Dovrei leggere di più: gli opuscoli delle istruzioni, le riviste di settore, le liste della spesa, gli ingredienti tossici delle gomme americane, i cartelli stradali, i dépliant delle agenzie di viaggio, le didascalie dei musei, i sottotitoli dei programmi tv, gli elenchi telefonici, le locandine dei concerti, i volantini incastrati nei parabrezza delle auto, i biglietti del cinema, i sussidiari delle elementari, i diari di scuola, i calendari, i moniti dei pacchetti di sigarette, i fondi delle tazzine di caffè, i graffiti che colorano i treni per Suzzara, i dizionari, i codici a barre, i titoli di coda, le dediche sulle tombe dei defunti, gli annunci mortuari, gli indici delle mappe cittadine, le code degli aerei sulle spiagge della riviera, le tue mani.

Dovrei leggere di più, compresi i fantasy o i noir o i saggi di filosofia, nonostante preferisca di gran lunga i romanzi rosa: lo sai, lì ci posso trovare le belle frasi da dedicarti al risveglio, le frasi d’amore, racconti dove il protagonista maschile ha sempre un non so che di tuo e dove la sua lei assomiglia sempre un po’ a me. Credo che gli autori dei romanzi rosa pensino molto a noi quando scrivono le loro frasi d’amore, a noi come idillio perfetto. Tu non credi? Ma il nostro idillio perfetto è così perfetto da tradurre in parole. Le parole, le definizioni, subiscono uno scarto di realtà o, a volte, fanno del vero qualcosa di più vero. Si avvicinano a ciò che noi siamo, ma non ci colgono mai appieno, perché alcune particelle infinitesimali del nostro idillio, sfuggono, non si manifestano, incomprensibili e arcane. Io leggo, io devo leggere di più, perché devo ritrovare quello scarto, quello scarto disperso, mettere insieme le parole di un libro e l'altro, come un collage di ritagli che possa illuminare le nostre particelle più oscure. Devo. Devo leggere di più, solo così riuscirò ad ottenere la spiegazione, la regola, la matrice del nostro amore, puro perché parcellizzato all'infinito. Solo così riuscirò a scriverne la formula algebrica, con le parentesi che hanno il profilo delle tue orecchie e gli asterischi che brillano come i tuoi occhi. Solo così. Devo leggere di più: scriverò ciò che nessuno ha mai scritto, ciò che nessuno è e mai riuscirà a scoprire.

26.6.13

Vaso

Ogni volta che andavo a farle visita, mi sembrava essersi rimpicciolita di una spanna. Poi di un’altra. Poi di un’altra ancora. Era diventata uno scricciolo. Qualunque suo movimento avrebbe fatto scricchiolare le sue ossa, o almeno, quelle che le erano rimaste. Perché molte si erano sbriciolate già da tempo - friabili come biscotti per il tè - e depositate nel fondo del suo corpo ricurvo: un albero dalla chioma di pensieri troppo gravi per un tronco così flebile e sottile. Era diventata uno scricciolo nodoso, un mobile vecchio, che i tarli si stavano portando via. Ma le bavelle di luce che scorgevo tra le pieghe del suo volto, conservavano il ricordo della sua maestosa bellezza.

Ogni volta che andavo a farle visita, desideravo poterla raccogliere, stringerla prima piano poi forte e riempire le pieghe del suo volto di baci, colmandole di tutto l’amore che negli anni lei stessa mi aveva dato. Baci siliconati, baci di colla, per tenere saldi i pezzi traballanti di un vaso prezioso, un vaso di ceramica antica che qualcuno ruppe ancor prima di vedermi nascere e che nessuno riuscì mai a riparare. Ci avevano provato in tanti, eppure i cocci sembravano non volessero più combaciare tra loro: qualche minuscola scaglia se n’era andata per sempre, volandosene altrove, nel luogo in cui i vasi sono fatti di nuvole e sono così grandi da poter contenere l’intera umanità. Quando sono nata avevo trovato in quel vaso riassemblato alla meglio, un terreno morbido, ricco di tesori e di storie da ascoltare. Non mi fece mai mancare nulla e io finii col sentirmi il fiore più incantevole di tutto il giardino.

Le ultime volte che andai a farle visita, smise di farmi i complimenti. Del resto non c’era stato giorno in cui non mi avesse paragonata alla dama di un bel quadro. Ora spettava a me trovare le giuste parole, rassicuranti, sicure, che zittissero i suoi tarli, almeno per un po’. Avrei voluto poterla guarire, donandole nuovo calore, una sensazione che lei e la sua pelle sembravano aver dimenticato. “Ho freddo dentro” mi ripeteva, me lo ripeteva di continuo, con ossessione, con gli occhi smarriti di chi guarda ma non vede: “Ho freddo dentro, tu mi credi?”. Come potevo fare altrimenti, come avrei potuto non crederle. Scricciolo scricchiolante. Vaso rotto, riassemblato alla meglio, con le scagliette volate via e gli spifferi tra un coccio e l’altro. Avrei voluto strapparla da quel male, se solo fossi stata capace. “Ho freddo dentro” e più lo ripeteva, più il mio sangue raggelava assieme al suo. Tremava, le tremavano le gambe, le mani, il cuore, e il tremore era così forte che le mie braccia, sole, non bastavano a fermarlo. Mi chiedo ancora quale melodia si potesse percepire intorno a noi, con tutti quei singhiozzi spezzati, quei sibili, quei sospiri, quei brividi di dolore, di fatica. Il suo freddo era paura, paura di morire. E se morì prima di me, fu perché avrei dovuto proseguire al suo posto, essere io stessa il vaso di qualcun altro. Così come lei e solo lei mi ha insegnato.

24.6.13

Ologramma

Gli uomini sarebbero più felici se ci si potesse ologrammare. Non dico per un lungo lasso di tempo, perché forse basterebbe anche un solo semplice e dolce minuto, lo stampo di un bacio, un sussurro nell'orecchio, una tirata di piedi, un formicolio sulla pancia. In veste di ologrammi si diventerebbe come fantasmi, senza nessun precedente bisogno di morire; fantasmi opalescenti, di una lattiginosa trasparenza visibile soltanto agli occhi degli amanti. Si passerebbe attraverso i muri, le porte, le stanze, ma non si farebbero cadere né quadri né quisquilie. Si potrebbe camminare coi piedi sul soffitto, come sognavamo da bambini, quando provavamo a pestare il cielo, cimentandoci in mirabolanti capriole sul divano. Avremmo potuto romperci il collo, invece ora, con l'ologramma, potremmo persino volare. Leggiadri, puri, liberati dalla materialità dei nostri corpi e tornati ad essere spiritelli, spiritelli buoni. Non ci si potrebbe abbracciare, però si potrebbe alitare sul collo dell'altro: qualcosa di caldo a ricordargli che esisti, qualcosa di freddo per presagire una brutta notizia. Gli ologrammi accorcerebbero così qualsiasi distanza o mancanza. Allieterebbero i momenti bui, colmerebbero i vuoti. Coloro che si amano da lontano riuscirebbero finalmente a condividere degli istanti nuovi, senza dover finire, ogni volta, a rimembrare i vecchi, cibi surgelati che scongeli e ricongeli quando sei indeciso sulla cena. Se ci si potesse ologrammare, gli uomini sarebbero più felici. E io ora sarei lì, affacciata alla tua finestra più grande, con te appoggiato in bilico sul davanzale. Staremmo guardando il mondo da sopra la sua testa, felici. Tu vero e io ologramma. Giusto il tempo di una sigaretta.

2.6.13

Raggi buoni

Riesco ancora a meravigliarmi di quanta forza possieda un ricordo felice. La forza di nascondere quelli più tristi con uno strano effetto di luce, un abbaglio che acceca ogni cosa e ti ricopre di Sole. Io mi abbronzo dei nostri momenti migliori, miei e tuoi. Con la marmellata all'albicocca come crema spalmata, crema ad alta protezione, per proteggerci da chi, i nostri momenti migliori, non li capirà mai. I miei occhi sembrano persino più azzurri quando rimango immobile qui, a ricevere i raggi buoni, quasi diventassero schermi di cristallo su cui far scorrere i fotogrammi d'un film d'altri tempi.
Però mi piace starmene qui, distesa qui, mi piace proprio. Quando posso ne approfitto per starci il più a lungo possibile: voglio che i nostri raggi buoni mi arrivino fin sotto la pelle, impregnarmi di ciò che siamo stati perché magari così lo saremo di nuovo. Torneremo nuovi. Mi addolcisco al solo pensiero di te che ti soffi il naso di nascosto o che divori la piadina con la mozzarella bollente. Oggi ho esagerato con l'esposizione e mi sono scottata tutta. Mi sono scottata anche se ho fatto come mi avevi detto tu, anche se mi sono messa addosso la più dolce marmellata all'albicocca che custodivamo in dispensa. Penso di avere la febbre. Ma non preoccuparti, passerà. Amore mio, passerà.

1.6.13

Bozzolo

Ci sono giornate che portano il velo. Credo sia bianco. Spesso succedono a quelle notti dove hai fatto di tutto pur di non chiudere gli occhi. Perché sentivi i rumori provenire dalla tua testa e avevi paura di cosa avresti potuto sognare. Non ti ricordi su quale pensiero tu ti sia addormentata, ma ti ricordi che il buio se ne stava già andando.

In quelle tre ore di sonno, ho fatto persino in tempo a vedere mia madre entrarmi in camera, che non è mai la mia vera camera, ma non sono riuscita a chiederle niente perché se n’era già andata. Come il buio. In quelle tre ore di sonno c’è stato qualcuno che mi ha persino coperto con un velo, infilato in un bozzolo fino in cima alla testa, forse incastrando una ciocca dei miei capelli nella cerniera. Non penso sia stata mia madre; non ho potuto capire chi fosse perché avevo avuto quell’angosciosa sensazione di palpebre che non vogliono aprirsi. È una sensazione orribile. Come se si fossero incollate per farmi un dispetto, come a rendermi impotente.

Mi sono svegliata in un bozzolo setoso, di seta fine, così fine da poter guardarci attraverso e respirare senza affanno. La luce era opaca e lattiginosa, ma le cose sembravano rimaste ferme al loro posto. Questo mi diede subito molto fastidio. Vorrei sempre che ci fosse un nuovo arrivato tra i soprammobili del salotto, un fiore appoggiato sul tavolo, uno strofinaccio caduto a terra, una monetina sotto il bicchiere, una tazzina di un caffè bevuto in fretta. Invece le cose erano al loro posto. Di diversa c’ero io, che mi muovevo lenta, impacciata, quasi a trascinarmi il corpo, come un carcerato che alla palla al piede ci ha attaccato gli errori e i sensi di colpa di tutta una vita.

Chiunque mi avesse avvolto nel bozzolo sapeva che avrei trascorso la giornata lasciando che la noia si mangiucchiasse il mio tempo. Dalla finestra mi sarei soffermata più volte sulle cime più alte del bosco, invidiandole e invidiando i passerotti che possono dondolare lassù, assieme al vento, senza bisogno d’altalene. Chiunque mi avesse avvolto nel bozzolo sapeva che oggi avrei vissuto una giornata velata di malinconia, sigillata in un involucro bianco, fatto della stessa delicata sostanza dei ricordi, più vivi e vividi di me.

Praticamente è stato come starsene al centro di quelle bajour per bambini, dalla forma quadrangolare, sui cui lati sensibili appaiono le proiezioni cicliche di immagini a colori. Ecco, nelle giornate velate, velate di malinconia, è come starsene seduti lì in mezzo, a gambe incrociate, con le mani che cercano d'inseguire le ombre vivaci, quasi fossero la coda d’afferrare durante il giro veloce sul Bruco Mela. Sì, è proprio come starsene al centro di quelle bajour, con la tua mente che proietta i ricordi sulle pareti del bozzolo.

Provo a prenderli, sia mai che domani mi sveglio farfalla.