30.9.10

Siete il mio souvenir.

Ancora una volta, in fila indiana. Incastonate al loro posto, le vostre facce come in album da collezione: siete le mie figurine, le più rare. Le trovano in pochi, e io vi ho trovato, non vi baratterei con nient’altro al mondo. Siete la mia fortuna, siete ciò che sarò io domani, mi potrò specchiare in voi ogni giorno perché in voi saprò cercarmi ed esserci di nuovo. “Io ci sono anche quando non ci sono” ve lo ripeto da mesi, me lo ripeto io stessa, le sere in cui la nostalgia arriva più forte a bagnarmi il cuscino. Spazzate via ogni altra cosa.
Siete il mio souvenir, di tutti i colori, di quella vacanza durata una vita. Lo tengo in tasca e lo faccio tintinnare: voglio ascoltarlo mentre cammino. Siete il ritmo dei miei passi. Allora portatemi lontano per tutti quegli anni che verranno e riverranno. Se mi fermerò, sono sicura che rimarrete lì ad aspettarmi. Ancora una volta, in fila indiana.

18.9.10

Bianco

Quando inizi a vedere tutto bianco è perché i colori se ne sono andati tutti al loro posto, roteano prima che qualcuno abbia girato la ruota. È chiarezza, limpidezza, franchezza, ciò che intorno si può avere solo se su quell’arcobaleno hai trascorso giorni a correrci sopra, la tua palestra, il sudore come la tua pioggia. Hai trovato il tetto, ti sei protetto e hai proseguito, così ora vedi e pensi bianco, pulito, perché non sei rimasto immobile, seduto lì ad aspettare la spinta per lasciarti scivolare via.
Non hai perso le sfumature - ci sono ancora, ci saranno sempre - ti s’incollano alla faccia e le mandi giù per ogni boccata d’aria che ti vai a riprendere. Sei felice nel momento in cui sei felice, nient’altro. Hai perso i contorni, quelli sì, sei uscito dai bordi senza la paura di sbavare, non hai più esitato davanti ai paletti, hai semplicemente lanciato il tuo cuore al di là dell’ostacolo. Sei felice di te. Lo si nota da subito, appena ti guardi da vicino e ti squarci l’involucro per curiosarti dentro. La tua pelle ha smesso di essere un luogo ambiguo, non fa più da limite con l’aria, non appartiene né a te né all’esterno, ma a entrambi. Dell’aria hai preso lo stesso profumo, la stessa essenza che resta e che ti è entrata fino in fondo. Le tue viscere sono diventate come il concentrato nei contenitori di latta, il sorso denso del succo. E sanno di tramonto d’estate, di settembre, il mese solitario e un po’ frainteso, dove ci sono una fine e un inizio. Dove ci sono specchi, confessioni e confronti. I suoi giorni ti fanno tornare indietro di anni perché sono a strapiombo sul futuro.
Più o meno nudo, ti trattieni più a lungo a guardare la spiaggia come qualsiasi altra vecchia strada percorsa, i finestrini abbassati a scambiarti parole con il maestrale. Poi arriva l’ora dei saluti. Basta un attimo e non ti accorgi di esporre più di quanto conosci di te. C'è il bianco, la luce filtra attraverso fino a farti lacrimare. Divieni un umano fatto ad arte, un’arte fuori cornice, chiusa in quella cartolina che non ti va di spedire, ma che tieni per te perché non vorrà mai essere dimenticata.
In questo nono ed estremo mese hai ancora la voglia di essere qualcuno che crede in qualcosa. Ti chiedi se quello che per te conta è quello che hai o quello che non si può avere proprio perché hai quello che hai. Ti fai i propositi, ponti sospesi, tronchi sui ruscelli, amache bianche tra gli alberi. Ma sai benissimo che potresti accontentarti solamente di una cosa: una casa da cui poter vedere un albero per capire quando arriverà di nuovo l'estate. Ed essere felice nel momento in cui sei felice, nient’altro.

3.9.10

I grandi orizzonti

Il ricordo di lei sembra vivere fuori dal mio tempo, come se esistesse un aldilà già avvenuto, un aldilà di ieri, dove i contorni a matita di ciò che di quella figura è rimasto, tremano deboli sotto al mio dito, e non c’è più nitidezza.

Era poco più di un anno fa quando l’avevo salutata l‘ultima volta, mi parlava con gli occhi, timida, pretendendo bastassero quelli per capirla. Bastavano.
Con lei avevo condiviso ogni momento, così tranquilla e riservata, mi aveva insegnato che anche il silenzio è di buona compagnia: non ti disturba se non hai voglia di parlare. Era materna, pulita, bianca, quasi bianca come le sue bugie, una delle persone più belle che avessi mai incontrato; lo si capiva da chi le stava intorno, belle persone anche loro. Del resto non era difficile volerle bene, all’inizio, il suo broncio e i sorrisi un po’ tirati, la rendevano antipatica, altezzosa, ma poi, quando ti salutava - sempre - e ti sedeva accanto, veniva naturale parlarle di te, delle tue cose, del tuo domani.
Mi comprendeva come nessun’altra, anche se mi abbracciava poco e sembrava non le piacessero i sentimentalismi. È stata lei a consigliarmi di partire, che qui non potevo aspettarmi molto di più di ciò che già avevo; che, se dopo aver bussato alla porta accanto, il vicino non era stato gentile e mi aveva presto dimenticata, non c’era motivo di rimanere oltre.
Parlava che il suo più grande desiderio sarebbe stato sparire, anche solo per un po’, perché sosteneva che se fosse sparita, la sua assenza avrebbe reso ancor più grande il suo ritorno, più piacevole la sua presenza. Io, d’al canto mio, con il timore di perderla, di non riconoscerla più una volta tornata, le ripetevo che sparire è tuttavia pericoloso; certo, ti apre le porte dell’immaginario, ma di porte ce ne sono solamente due, non si sbaglia, da una esci, dall’altra entri. Finché un giorno quella per entrare non si apre più. E la magia svanisce.

Se n’era andata in un giorno di sole, di mattina presto, goffa sotto il peso delle piccole e prime paure, stanca e imbarazzata in un mondo da interpretare. Era diretta verso i grandi orizzonti, voleva andarli a toccare con mano, immergersi e rubarne la forza di reinventarsi; curiosa di vedere in un anno quanta gente potesse passare per la sua porta, aprire e restare. Negli ultimi tempi si era convinta che di posto, dentro, non ce ne fosse più per nessuno, che per lasciare liberi spazi avrebbe dovuto toglierne ad altri, ai primi, quelli che proprio non se lo sarebbero mai meritato. Credeva di possedere un cuore già saturo abbastanza, invece aveva semplicemente messo le transenne, chiuso le sbarre. Teneva tra le mani i sogni e una borsetta, in spalla lo zaino a ricordarsi chi fosse, pieno di cose e di persone. L’aveva riempito a più non posso fino a non farlo respirare, cercando di ficcarci tutto per non dimenticarsi di nulla. Se n'era andata.

Voci mi hanno detto stia bene, benissimo, che sia riuscita ad intrecciare due storie in una, a misurare dove finisca il nuovo e dove inizi il vecchio. Mi hanno detto che vive a mezz’aria, a metà, tenendo appena i piedi sollevati da terra, perché le viene più facile frenare, scendere a contare i suoi tesori, a vedere se ci sono ancora, per ritrovarli interi e senza graffi, lì in fila a farle da luce sulla via di casa, fari. I suoi tesori sembrano non aver smesso di brillare e continuano a farla brillare di luce riflessa. Finché li terrà in lei, nessuno potrà mai rubarli, sono al sicuro.
Ai tesori lontani se ne sono aggiunti d’inattesi. La normalità si è trasformata in sorpresa, non se l’aspettava proprio. Li aveva trovati per caso sui gradini di una scala, affannati, e con il suo stesso bisogno: un appoggio per proseguire. Con loro è arrivata in cima, tra le correnti, dove la vista ti toglie il fiato e dove tutt’un tratto ogni cosa sembra avere il proprio nome. Dove i dettagli che preferisci, in tutto quel paesaggio, sono le cose più semplici, i fuori programma, le messe a fuoco.

E fu proprio da lassù che li scorse, finalmente più vicini, i grandi orizzonti.